La coppia scoppiata nel bunga-bunker

martedì, 27 settembre 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Pur detestandolo, Tremonti è destinato a condividere fino all’ultimo il bunga-bunker di Berlusconi. Che a sua volta lo espellerebbe volentieri dal suo rifugio governativo blindato, non fosse troppo pericoloso dissigillarlo anche solo per un attimo. Vivono alla giornata, ormai, i fallimentari protagonisti del centrodestra italiano presentatosi come una rivoluzione liberale nel lontano 1994. Rinchiusi nel bunga-bunker, confidano di essere lasciati in pace dalla Banca Centrale Europea, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Commissione di Bruxelles perché tali istituzioni, pur disprezzandone i comportamenti, nel bel mezzo di una bufera continentale non possono correre il rischio di lasciar fallire l’economia italiana. Che trascinerebbe con sé i partner dell’Unione e un bel pezzo d’occidente. Il salvataggio dell’Italia, i cui Titoli di Stato continuano a essere acquistati caritatevolmente dalla Bce, comporta dunque pure il salvataggio della coppia scoppiata Berlusconi-Tremonti?
Davvero singolare è il tragitto di Giulio Tremonti, il plenipotenziario dell’economia italiana, inseguito a Washington dal “fuoco amico” dei suoi stessi colleghi di governo e di partito. Si era macchiato della colpa di disertare il voto contro l’arresto di Marco Milanese, il suo ex braccio destro con cui solo la magistratura ha interrotto una torbida collaborazione, non si sa bene quanto complice e quanto ricattatoria. Tanto è bastato ai suoi avversari interni, primo fra tutti Berlusconi, per denigrarlo sul piano morale proprio nel mentre al ministro spettava di tutelare gli interessi nazionali in un consesso mondiale difficilissimo.
Così il tecnico che era riuscito a costruirsi una solida base di manovra politica, fra il leghismo e un certo ammiccamento trasversale dalle parti di Prodi, D’Alema e della Cgil, si ritrova spogliato d’un colpo dei suoi molteplici attributi. Nessuno lo considera più un tramite efficace con l’establishment internazionale; un ambiente nel quale un ministro che paga cash in nero l’affitto di casa, per giunta a un faccendiere ingordo che vendeva perfino le nomine pubbliche e che lui si teneva al fianco da dieci anni, già da un pezzo avrebbe rassegnato le dimissioni. Ma nessuno troverebbe più credibile Tremonti neanche come portavoce culturale del populismo localista padano, anzi, se potessero i sindaci del Carroccio lo inseguirebbero volentieri con il forcone. Che sopravviva lo studioso critico della globalizzazione, quello che voleva farci prosperare erigendo dazi per fronteggiare la superpotenza cinese? Temo abbia cambiato idea già due o tre volte, nel frattempo, mentre la realtà s’incaricava di smentire di volta in volta il suo lassismo fiscale e l’antieuropeismo sostituiti dalle teorie contrarie.
Fine carriera, dunque, per il tecnocrate che volle farsi politico per diventare uomo di Stato, ma con una spregiudicatezza che vent’anni dopo lo riporta alla casella di partenza: il professore che ha fatto i soldi con uno studio professionale in cui non si disdegnavano suggerimenti di elusione fiscale ai detentori di grandi patrimoni. E’ quello l’autentico Tremonti con cui non a caso s’è inteso bene, per dieci anni, Marco Milanese. Che resterà pure a piede libero con le sue Ferrari, i suoi orologi e le cassette di sicurezza svuotate, ma continua a simboleggiare il degrado del nostro ministero dell’Economia.
Tutto questo accade in giornate drammatiche per le sorti dei conti pubblici. La crisi ha origini più complesse, ma se questi signori uscissero dal bunga-bunker e sgombrassero il campo, potremmo affrontarle con un minimo di credibilità.

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