Se gli indignados circondano Wall Street

mercoledì, 5 ottobre 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Prima di tutto è la violazione del santuario di Wall Street a farci trasecolare. Mai un movimento di protesta aveva osato circondare il tempio pagano della religione mondiale dominante, là dove si applicano i dogmi del capitalismo finanziario, distribuendo la ricchezza secondo criteri incomprensibili a noi comuni mortali. I manifestanti che circondano la Borsa di New York dal 16 settembre scorso sono andati dritti al cuore del problema: le banche d’affari, gli hedge fund, le agenzie di rating, i fondi sovrani, le multinazionali che ormai detengono una supremazia così plateale sul destino comune, da costringere perfino i governi a ragionare come loro.
“Occupy Wall Street” è di per sé un nome che suona blasfemo negli Stati Uniti d’America, perché insidia l’architrave di un sistema considerato naturale. La democrazia americana ha tollerato proteste libertarie, pacifiste, antidiscriminazione; ma non ha conosciuto mai prima d’ora una simile delegittimazione dell’ingranaggio basico attraverso cui prende forma un’assurda piramide sociale. Cioè una nazione dove l’un per cento della popolazione controlla più di un quinto della ricchezza, e il 15 per cento della gente vive sotto la soglia di povertà.
E’ un segnale storico quello che ci perviene da New York, e la polizia che ha ammanettato 700 dimostranti sul palcoscenico del ponte di Brooklyn, non ha fatto altro che amplificarlo. Vuol dire che stavolta non sono le economie arretrate, non è solo la periferia del mondo a recriminare per i torti subiti. La crisi in corso dal 2007, che ha avuto come elemento scatenante l’inadempienza di tante famiglie americane impossibilitate a onorare i loro mutui per la casa, sollecita un ripensamento drastico dell’economia più potente del pianeta. Ma siccome questo pianeta ormai è davvero interconnesso, può succedere che i protagonisti di “Occupy Wall Street” vengano chiamati “indignados” (con la G indurita) perché si rifanno al movimento dei disoccupati spagnoli; che a loro volta attingono dai greci o dagli islandesi il loro modello culturale. Una contaminazione che ha raggiunto il suo culmine spettacolare quando nel luglio scorso, su un boulevard di Tel Aviv che guarda caso si chiama Rotschild come una delle famiglie storiche del capitalismo finanziario globale, a piantare le tende sono stati dei giovani che scandivano in ebraico la rima: “Tahir se lo rak be Kahir” (“Piazza Tahir non è solo al Cairo”). Mai visti prima degli israeliani richiamarsi a una rivolta araba! E l’effetto domino continua perché l’idea dell’accampamento con le tende è già stato trapiantato da Israele agli Usa, dopo aver fatto proseliti anche in un’Italia colpita come e più degli altri dalla disoccupazione giovanile, ma afflitta da una demografia che li ha ridotti a minoranza di un paese invecchiato.
A pochi passi da Ground Zero, dieci anni dopo il crollo delle Torri gemelle, nasce un movimento inedito per la giustizia sociale, desideroso di confrontarsi con i veri potentati dell’economia di mercato. Non sono così ingenuo da pensare che l’America stia per essere percorsa da un’ondata anticapitalistica, ma il fatto stesso che la protesta abbia trovato il modo di radicarsi e di espandersi, segna un passaggio epocale. Farci su dell’ironia perché il suo pensatore più famoso al momento sembra essere Michael Moore, è sconsigliabile. Dall’azione diretta è probabile che emergano presto leadership, teorie e culture alternative che la politica, a cominciare da Obama, sarà costretta a prendere sul serio.

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