I ragazzi e la tirannia anonima della finanza

sabato, 8 ottobre 2011

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.

Mentre la politica italiana s’ingarbuglia nella complicata liquidazione del berlusconismo, le prime vittime della Grande Depressione, cioè i giovani, mirano più in alto. Da temerari, lanciano una sfida globale contro la superpotenza finanziaria. Usano lo spagnolo per definirsi indignados. Scrivono in inglese i loro striscioni: Save school, not banks! S’interconnettono nella scelta dei bersagli: agenzie di rating, Borsa, banche d’affari, istituzioni finanziarie sovranazionali. Se la primavera araba ha abbattuto dei tiranni decrepiti, l’autunno occidentale si misura con l’anonimato di un’altra tirannia che traballa: i dogmi di un’economia incapace di distribuire equamente il benessere.
Troppo facile accusarli di velleitarismo, ora che il loro movimento ha circondato perfino il santuario di Wall Street. Neanche il più nostalgico dei marxisti avrebbe osato pronosticare un simile evento storico: lo spettro dell’anticapitalismo si aggira per gli Stati Uniti d’America? Calma e gesso, l’individualismo e lo “spirito animale d’intrapresa” restano connaturati all’America. Mai però la contestazione aveva insidiato prima d’ora i forzieri del capitale, là dove buona parte della ricchezza planetaria viene convogliata e ripartita secondo criteri incomprensibili a noi comuni mortali. Fino a erigere la piramide assurda dell’ingiustizia sociale che neppure i suoi beneficiati osano più giustificare.
Nella Grande Depressione in corso ormai da quattro anni, ha proliferato dapprima diffuso un senso comune anti-élitario, di destra o di sinistra. E ora ne scaturisce un’inedita contestazione eretica dei vincoli dell’economia di mercato. Quando è apparso evidente come all’arricchimento smisurato di pochi corrispondesse l’impoverimento di nazioni intere, gli indignados hanno lanciato la rivolta contro gli intoccabili.
Questi giovani pretendono (si illudono?) di dare un volto ai giocatori che speculano sull’azzardo finanziario. Denunciano le conseguenze di un debito da costoro continuamente riacceso e dunque (solo per loro vantaggiosamente) infinito. Insieme ai tecnocrati, contestano i professori di economia arcisicuri che la sofferenza sociale vada sopportata, perchè dalla crisi si uscirà prima o poi ripristinando la baldoria di prima.
La simultaneità dei movimenti di protesta giovanile esplosi a ogni latitudine, rompe i vecchi schemi terzomondisti. Oggi è nel cuore del sistema capitalistico occidentale che si genera l’antagonismo sociale, impersonato da soggetti nuovi come i lavoratori della conoscenza. D’un colpo è invecchiata pure la terminologia suggestiva ma generica di Toni Negri sull’”Impero” circondato da “moltitudini” espropriate: un movimento statunitense che si autodefinisce “Occupy Wall Street” esprime ben altro che la protesta delle periferie del pianeta. Atene, Tel Aviv, Madrid, Santiago non sono più così distanti da New York. Semmai è l’Occidente stesso che comincia a patire le conseguenze della sua eclissi. Smette di credere alla favoletta della ripresa dietro l’angolo, perseguibile con apposite manovre governative dettate dall’alto. Dubita dell’efficacia di piani di rientro del debito sempre più onerosi. Si domanda se una civiltà che prevede un limite ai minimi salariali, per sostenibilità non debba contemplare pure un limite ai compensi elevati.
Trovano così cittadinanza, nel senso letterale del termine, le domande scandalose che purtroppo l’accademia e l’establishment commettono l’errore di liquidare con sufficienza.
La politica, compresa la politica di sinistra, evita di rappresentarle, considerandole naif, perché a sua volta affida le proprie chance di successo ai rapporti confidenziali che intrattiene con l’accademia e l’establishment. Nessuno che aspiri a governare l’Italia, per esempio, azzarderebbe una contrapposizione esplicita alla lettera-diktat spedita dalla Bce l’agosto scorso. Gli indignados di casa nostra, viceversa, pretendono di consegnare nei prossimi giorni alla Banca d’Italia una lettera dai contenuti diametralmente opposti.
L’appello messo in rete per la giornata europea di mobilitazione, convocata il prossimo sabato 15 ottobre, si rivolge alla Commissione europea, alla Bce e al Fondo monetario internazionale, assimilati alle multinazionali e ai poteri forti: “Ci presentano come dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita”. La replica degli indignados è secca: “Non è vero che siano scelte obbligate”. Alla politica chiedono di esercitare un contropotere rispetto alla superpotenza finanziaria globale, perfino rivendicando il “diritto all’insolvenza”.
L’equazione grossolana secondo cui “il debito non l’abbiamo contratto noi, quindi non lo paghiamo”, comincia a essere declinata in forme più articolate. Come l’ipotesi di un “default concordato e selettivo” a protezione dei ceti deboli. Anche per rintuzzare la voracità di cui sono vittime i paesi più indebitati, come la Grecia, a rischio di spoliazione. E’ una follia questa richiesta di sottrarsi alle regole dei mercati? Può darsi, ma nel caso bisognerà spiegarlo con umiltà a molta gente che nei decenni trascorsi –quando pure furono dei tecnici eccellenti a guidare le politiche di risanamento- ne subirono ingenti decurtazioni di reddito. Neanche l’idea di accollare agli Stati un oneroso piano di rifinanziamento delle banche risulterà accettabile, finché latitano provvedimenti di maggiore giustizia sociale. “Salvate le scuole, non le banche”, appunto.
Succede quindi che su ambedue le coste dell’Atlantico si riconosca un nemico comune. Magari ridotto in caricatura semplicistica da chi imbratta le sedi delle banche e occupa gli uffici delle agenzie di rating. Ma si tratta di una reazione comprensibile di fronte a un’economia trasformatasi in ideologia. Sono due docenti dell’università Bocconi, Massimo Amato e Luca Fantacci, a denunciare il feticcio di un sistema finanziario solipsistico in cui pareva possibile che i conti non si chiudessero e i debiti non si pagassero mai (“Fine della finanza”, Donzelli editore). Fino all’”eternizzazione dell’espediente”: da ultimo, creare debito impagabile prestando soldi a chi non può permettersi di rimborsarli, tanto…chi vivrà, vedrà.
Ecco, non si può pretendere che gli indignados, italiani, greci, islandesi, spagnoli o americani che siano –comunque figli rimasti esclusi dai nostri privilegi- credano ancora che l’innovazione sia di per sé portatrice di miglioramento. La creatività dei finanzieri, se mai fu ammirevole, oggi risulta detestabile. E per favore non chiamatela invidia sociale.

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