Una risposta a Alessandro Penati

sabato, 19 novembre 2011

Rispondo a Alessandro Penati con ritardo (di cui mi scuso) e con timidezza dovuta alla sua nettamente superiore competenza. Ma devo dirgli che non mi convince il suo argomento, secondo cui la crisi dei debiti sovrani degli Stati è prodotto delle politiche di bilancio sbagliate, e quindi ne uscirebbe ribadita una prevalenza della politica sulla finanza; tanto più, precisa Penati, che gli Stati detengono tuttora la possibilità di ricorrere al default, evento da cui gli investitori possono solo cercare di difendersi.
Troverei convincente la considerazione del liberista Penati se davvero il collasso del capitalismo finanziario occidentale con cui stiamo facendo i conti dal 2007, fosse originato per intero dall’esistenza di questi eccessivi debiti pubblici. Con i quali viceversa ha convissuto serenamente per decenni. Alessandro Penati, di cui ricordo un recente appassionante panegirico della biografia di Steve Jobs, sa bene che il meccanismo s’è inceppato proprio lì, nei santuari in cui la moltiplicazione e la diffusione del debito producevano ricchezza smisurata a vantaggio di chi lo propagava. Quando discuto privatamente con alcuni protagonisti di quella stagione per loro straordinariamente remunerativa, mi sento rispondere con imbarazzo che vi furono, in effetti, degli eccessi. Ma a parte il fatto che tali “eccessi” continuano a perpetuarsi, i manager in questione mi sembrano la fotocopia di certi comunisti pronti a criticare le brutture del socialismo reale senza rinunciare al proprio credo.
Sbaglierò per ignoranza, ma credo che il giorno in cui il professor Penati facesse i conti con l’insita tendenza della finanza sregolata –generare debito a scapito dell’economia reale, non più a suo sostegno- muterebbero i suoi giudizi pure sul rapporto instauratosi oggi fra economia globale e governi nazionali. Il contemporaneo avvicendamento di Monti e Papademos alla guida d’Italia e Grecia, non equivale certo alla congiura evocata da troppi imbecilli; ma deve pur farci riflettere sulle conseguenze provocate dall’indebolirsi della politica.
Infine. Tutti dobbiamo augurarci di essere governati in futuro da una classe dirigente sempre più cosmopolita, anglofona, adusa alla consuetudine degli organismi sovranazionali. Ci mancherebbe, abbiamo visto che brutta fine si fa consegnandosi a leader populisti compiaciuti della propria ignoranza provinciale. Ma è troppo, professor Penati, sperare che si consolidi una controélite globale, espressione di una critica al potere finanziario che ormai sta diventando senso comune?

Per chi non l’avesse letto, ripubblico l’articolo di Alessandro Penati uscito su “La Repubblica”.
«FINO a che punto le regole dell’ economia mondiale sono compatibili con l’ esercizio della democrazia?», si è domandato Gad Lerner (Repubblica, 3/11), sull’ onda delle reazioni al referendum greco proposto da Papandreu. Una domanda che molti si pongono anche oggi, con un economista-banchiere, Papademos, al posto di Papandreu; e un altro economista, Monti, candidato a guidare un’ Italia in crisi finanziaria. Nelle piazze si grida “No alla dittatura dei banchieri”, “No alla politica serva della finanza”. Sono le stesse argomentazioni, solo meno articolate, dei tanti articoli che hanno denunciato il “commissariamento” dell’ Italia, con gli ispettori del Fmi, o la sovranità limitata imposta dalla lettera della Bce, e dai 39 quesiti dell’ Europa. Ma la risposta alla domanda di Lerner non è quella che sembrerebbe. La possibilità di indire un referendum, di fatto, su una dichiarazione unilaterale di default, attesta che il futuro della Grecia è deciso dal suo popolo e dai suoi governanti. Il default è un’ opzione che ogni Stato ha a disposizione: la sceglie se e quando i costi sociali di onorare il debito eccedono quelli del default. È già successo centinaia di volte. Nessun banchiere, Stato estero, o organismo internazionale gli può togliere, o limitare, questo privilegio, certificando che, per gli Stati sovrani, è la politica a prevalere sulle ragioni della finanza internazionale. La Grecia non ha rinunciato al referendum perché la Bce o la Merkel glielo hanno impedito, ma perché il default, oggi, non le conviene. La minaccia è stata usata efficacemente come arma per negoziare meglio il piano di salvataggio. Se e quando le dovesse convenire, la Grecia dichiarerà default. Ed è proprio la sovranità degli Stati sul debito estero a indurre i creditori a richiedere un premio per il rischio “paese”. Un premio che non esisterebbe se, in una dittatura della finanza, i banchieri potessero costringere gli Stati a onorare il debito, imponendogli qualsiasi aumento di imposte o espropriandoli delle loro attività. Così non è. Anzi nella crisi del debito sovrano europeo è la politica ad aver prevalso sulla finanza. Con l’ euro si è costituita un’ unione monetaria, non politica e fiscale. In pratica, si è concessa una linea di credito ai Paesi membri, a un costo uguale per tutti, a prescindere dalla credibilità dei loro governi o dalla loro struttura economica. A parte la Germania, tutti i Paesi dell’ Eurozona l’ hanno abbondantemente utilizzata, sviluppando disavanzi della bilancia dei pagamenti di parte corrente, misura dell’ importazione netta di capitali. Ogni Paese ha utilizzato questo nuovo credito come la politica locale ha stabilito, senza che i creditori internazionali, o l’ Europa, ponessero condizioni; e senza fornire garanzie. Sono le politiche nazionali ad aver sperperato queste risorse. In Grecia e Portogallo è stata la politica a usare l’ indebitamento a basso costo per far crescere a dismisura un’ amministrazione pubblica clientelare e inefficiente; a permettere il finanziamento di una colossale bolla immobiliare in Spagnae Irlanda.E in Italia è sempre la politica che ha sperperato il credito ottenuto grazie all’ euro, senza attuare le riforme necessarie per far uscire il Paese dalla stagnazione, ridurre l’ evasione e cancellare la corruzione. L’ euro è stato un grande esercizio di democrazia: per oltre un decennio, in ogni Paese le ragioni della politica hanno prevalso su quelle della finanza internazionale. Ma il credito agli Stati dell’ Eurozona aveva come unica garanzia la credibilità dei loro governi nell’ esercitare la sovranità sul debito. I paesi oggi in crisi sono quelli che hanno violato la fiducia dei mercati e perso ogni credibilità, a causa delle loro politiche.E ora non trovano più chi sia disposto a finanziari, se non pagando forti premi, per compensarli del rischio che, per l’ ennesima volta, gli Stati esercitino la loro sovranità, dichiarando default. Questo lo definirei dominio della politica sui mercati finanziari.
Alessandro Penati

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