In ricordo di Giorgio Bocca

martedì, 3 gennaio 2012

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”
Tra i colossi all’apparenza inamovibili che il 2011 ha sradicato, s’è aggiunto, proprio all’ultimo, nel giorno di Natale, il vecchio Giorgio Bocca. Per me era come certi castagni piemontesi che dominano il paesaggio narrato da Cesare Pavese, dal tronco così robusto che ad abbracciarlo non ci riesci, alla cui ombra sapevi di poterti sempre riparare, e mai pensavi che un giorno venisse giù. La sera che è morto ho stappato un barolo di Bartolo Mascarello, altro piemontese tutto d’un pezzo come lui, che teneva in cantina le sue foto con Nuto Revelli, Natalia Ginsburg, Vittorio Foa, Norberto Bobbio, gli altri maestri di cui avvertiamo la mancanza. L’ottimo dolcetto che Nicoletta, la figlia di Bocca, produce a Dogliani, invece l’abbiamo bevuto alla vigilia del funerale. Ne “Il provinciale”, libro-capolavoro sui vizi e le virtù del miracolo economico italiano, Giorgio Bocca racconta lo stupore dei milanesi, abituati a bere robaccia, quando sulla sua tavola comparivano certe bottiglie squisite e costose a loro sconosciute. Nel vino e nel cibo misurava il benessere acquisito e nello stesso tempo la distanza che teneva a mantenere dai potenti arricchiti senza cultura. Lo incuriosivano e si divertiva a raccontarli, conservando nei loro confronti una sana diffidenza.
Era già un mito del giornalismo quando rincorreva noi ragazzi davanti alle scuole e alle fabbriche, ricordo il suo sguardo ironico e le sue giacche sformate e il taccuino d’appunti che riversati nel telefono prendevano la forma del racconto effervescente, stralunato ma denso di riferimenti storici. Gli devo moltissimo, bisogna che lo scriva, senza tralasciare la telefonata come sempre brusca in cui consigliò a Livio Zanetti, direttore de “L’Espresso”, di assumermi nei primi anni Ottanta. Ma ben maggiore è il debito che porto nei confronti del maestro di vita e giornalismo che onorava immeritatamente noi di Lotta Continua dicendo che gli ricordavamo i suoi compagni di Giustizia e Libertà.
Il suo esempio ci convinse che il giornalismo poteva essere un mestiere degno, anche una forma di godimento del buon vivere, purché non lo disgiungessimo dal gusto dell’interpretazione sociale, dalla fermezza negli ideali dei maestri, e si frequentasse pure il potere perché bisogna conoscerlo, trarne lauti compensi –perché no?- ma cercando di rimanere sé stessi.
Spesso nell’albero genealogico del giornalismo italiano Bocca viene accostato a Enzo Biagi e a Indro Montanelli, anch’essi grandi talenti e spiriti liberi, come dimostrato dalla loro rivolta contro l’edonismo corruttore del Berlusconi vittorioso. Eppure in lui, nella sua scontrosa appartatezza, ritrovo qualcosa di più e di speciale. Nessun altro della sua generazione ha perpetuato fino a che le forze gliel’hanno consentito quella spinta a partire e ripartire in cerca, sempre in cerca. Dormendo in sperdute camere d’albergo, proteso a incontrare testimoni della natura umana, protagonisti minori, anime semplici e studiosi del nuovo, per avvicinarsi all’energia misteriosa, talvolta malvagia, in cui si manifesta la trasformazione sociale. Nel nostro linguaggio banale l’abbiamo chiamata inchiesta. Giorgio Bocca ne ha fatto un’arte. Non chiedo altro al mio mestiere che invecchiare come lui, preservando la sua curiosità, la sua passione, la sua dirittura.
Pochi giorni dopo Giorgio Bocca se n’è andato un altro suo coetaneo, don Luigi Verzè, come lui provinciale venuto nel dopoguerra alla conquista di Milano. Lascio a voi constatare la differenza. Io so solo che mi mancherà quel vecchio grande tronco impossibile da abbracciare.

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