Bossi e Maroni, i duellanti incatenati

domenica, 15 gennaio 2012

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Appena eletto senatore, Umberto Bossi ebbe lo stomaco nel 1987 di buttare fuori dalla Lega Lombarda sua sorella Angela e il cognato Pierangelo Brivio. Figuriamoci se poteva turbarlo, un quarto di secolo dopo, cacciare dal partito un altro dei soci fondatori, il Bobo Maroni. Solo che stavolta è scoppiato il finimondo, lo sturm und drang del cuore leghista infranto. Di mezzo c’è una lista impressionante di espulsioni, dal Castellazzi di Pavia al Tabladini di Brescia, dal veneto Rocchetta al piemontese Comino, senza dimenticare il milanese Pagliarini. Solo che la formula leninista –“il partito epurandosi si rafforza”- diventa improba da applicare a Varese, dove tutto cominciò e dove adesso tutto rischia di finire a catafascio. Più che al leader bolscevico russo, qui c’è il rischio che il longevo senatur venga paragonato all’ultimo dittatore comunista romeno Ceausescu. E per questo corre ai ripari con telefonate dietrofront e mozioni degli affetti purtroppo già da tempo vilipesi. Concedere a Maroni il ruolo della vittima che seppure calpestata non rinnega il padre-padrone, si è rivelato un errore di calcolo temerario, con le elezioni amministrative lì dietro l’angolo.
Stride che questo melodramma politico-sentimentale debba celebrarsi in una località così amena, in un sabato di gennaio luminoso e trasparente, con il Monte Rosa che pare vicinissimo, sospeso sul lago di Varese (anzi, Varés, come recitano i cartelli stradali) e la Svizzera a due passi, lasciandosi dietro le spalle il serpentone della A8 che conduce dritto nella sede federale di via Bellerio senza bisogno di addentrarsi nell’ostile Milano.
“Lega contro Lega, è resa dei conti”, recita il titolo de “La Prealpina”, di fronte a un popolo impreparato a parteggiare. Ben sapendo che il sindaco, Attilio Fontana, risultava fra i promotori mercoledì dell’ammutinamento pubblico dei maroniani: qui il Bobo se lo ricordano primo consigliere comunale leghista nel lontano 1985. Mentre il segretario bossiano del partito, Maurilio Canton, si porterà addosso per sempre il marchio di quella nomina per finta acclamazione, il 9 ottobre scorso, fra le urla di protesta dei delegati.
Quattordici anni di differenza separano Bossi dal suo braccio destro di una vita, Maroni. Abbastanza per consigliare a quest’ultimo di stare sempre un passo indietro nel rispetto della gerarchia che i leghisti coltivano come un dogma religioso, convinti che la sacralità della Padania discenda dal carisma del suo fondatore. Che il capo sia l’Umberto, e non si discute, ancora oggi Bobo ha l’accortezza di non metterlo in discussione; così come seppe trangugiare il sarcasmo del numero uno l’unica altra volta in cui emersero pubbliche divergenze: nel 1995, a parti invertite, quando Bossi tradì Berlusconi e Maroni voleva mantenere i rapporti.
Da quando fondarono insieme a Giuseppe Leoni la Lega Autonomista Lombarda, nel 1982, e poi rubarono alle biciclette Legnano il logo del guerriero padano, i due “rivoluzionari” (varesotto di provincia l’uno, varesino di città l’altro) hanno saputo far tesoro delle proprie differenze. Maschera popolaresca volutamente tragicomica è Bossi, l’uomo-mito dell’antipotere; per questo bisognoso dell’avvocato malizioso al fianco, con il quale dare vita al gioco delle parti fondato su astuzia e lealtà, contemplando la variabile dei rimbrotti plateali quando il trucco dello scaricabarile si faceva troppo scoperto.
Roberto Maroni ha rivelato doti di formidabile incassatore, né stupisce che anche stavolta faccia seguire alla telefonata del Capo un atto di sottomissione, visto che gli conviene. Tutto, pur di non passare per uno scissionista qualsiasi. L’ironia, che l’accomuna a Bossi, può aiutarlo a sopportare e aspettare per l’ennesima volta il momento giusto. Anche se “La Prealpina”, che lo conosce bene pure nelle esitazioni, già ieri anticipava il doppio senso celodurista: “Maroni, ci sei o ce li hai?”.
Per quanto Maroni sia spiritoso e navigato, per quanto neppure da ministro abbia dismesso l’immagine del musicista rock col suo gruppo “Distretto 51”, gli manca una virtù essenziale per aspirare alla successione di Bossi: il carattere istrionico carnevalesco, necessario a rappresentare le pulsioni reazionarie della base. Sarà forse il suo imprinting originario di sinistra, ma quella parte in commedia –quando Bossi rimase lontano dalla scena a seguito dell’ictus nel 2004- se la prese piuttosto Roberto Calderoli, con la sfacciataggine incarnata nella Lega delle origini da Francesco Speroni.
Maroni, insomma, sa benissimo che per quanto l’apparato del partito riconosca in lui il dirigente più autorevole, senza Bossi e contro Bossi non va da nessuna parte. Glielo ha confermato il voto parlamentare su Cosentino, in cui solo una parte dei deputati leghisti ha seguito le sue indicazioni, nonostante avesse strappato un pronunciamento per il Sì all’arresto della Segreteria politica. In quella sede aveva potuto usufruire dello sconcerto dovuto alle rivelazioni sui fondi di partito investiti in Tanzania e a Cipro: urgeva un gesto forte per coprire le magagne. Ma l’autorità residuale di Bossi gli è precipitata addosso venerdì sera, quando il diktat della sospensione delle manifestazioni di partito cui doveva partecipare Maroni è stato fatto pronunciare –con metodo staliniano-dal segretario lombardo Giancarlo Giorgetti, testa fina del movimento, esterno allo screditato “cerchio magico” dei fedelissimi.
E’ vero che la convocazione istantanea di cinquanta manifestazioni leghiste in difesa di Maroni ha evidenziato la debolezza del “cerchio magico”, inducendo Bossi a più miti consigli. Ma questo braccio di ferro dall’esito incerto è parso troppo pericoloso oggi a entrambi i contendenti. La Lega Nord è un movimento populista carismatico nel quale non basta impugnare la bandiera della democrazia interna per assumerne il comando. Stiamo parlando di un partito che non tiene il suo congresso federale dal 2002: dov’era Maroni in tutti questi anni?
Per i leghisti il dilemma non è stare con o contro Berlusconi, né vale lo schema facile secondo cui Bossi sarebbe amico del Cavaliere mentre Maroni gli vorrebbe schierare il partito contro. La spregiudicatezza li accomuna, in fatto di alleanze. Così come li accomuna la necessità di rispondere all’interrogativo che arrovella nell’immediato la gerarchia leghista, posta di fronte alle elezioni amministrative di primavera. Si voterà in molti comuni e province del Nord, dove il Carroccio non può prescindere dall’alleanza col Pdl se vuole conservare almeno una quota del suo potere. Solo a Verona è pensabile che Flavio Tosi, il sindaco uscente, possa farcela anche da solo a essere rieletto, senza il supporto dei berlusconiani. Altrove, la rottura della coalizione di centrodestra rischia di dare luogo a un vero e proprio tracollo.
Così, sull’orlo del burrone e senza tema del ridicolo, il varesotto e il varesino si scambiano segni di pace. E “La Padania” si cimenta nella più acrobatica delle smentite: “Mai stati divieti per Maroni. Questo non è il momento delle polemiche. Chi spera in una Lega divisa e dà ascolto a intermediari confusionali rimarrà deluso. Presto faremo un comizio insieme”. Chissà, magari domenica prossima in piazza Duomo a Milano.
Nel frattempo al Teatro di Varese va in scena una commedia dal titolo: “Se devi dire una bugia, dilla grossa”.

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