Il Dizionario dell’Olocausto

lunedì, 23 gennaio 2012

Questa è la mia introduzione al “Dizionario dell’Olocausto” (Einaudi) proposto in questi giorni nelle edicole in abbinamento a “La Repubblica” e “L’Espresso”.
Ho davanti agli occhi la copertina di un mensile ebraico del dicembre 2011 con il titolo: “Olocausto nucleare”. Grazie a un fotomontaggio, il Muro del Pianto vi compare sovrastato dal fungo di un’esplosione atomica. E il sommario esplicita per iscritto quella tremenda suggestione: “Ahmadinejad minaccia una nuova Shoà: Gerusalemme come Hiroshima? Chi fermerà la bomba atomica di Teheran?”.
Negli stessi giorni ha suscitato un certo scalpore la messinscena di un gruppo ultraortodosso israeliano: per reagire alle critiche di eccessiva ingerenza nella vita altrui, i suoi aderenti hanno manifestato travestiti con i pigiami a righe fatti indossare dai nazisti ai deportati nei campi di concentramento. Il ricorso al paragone storico infamante con il crimine della Shoah, tanto più infamante se rivolto da ebrei contro altri ebrei, non è certo un inedito. Il primo a farne un uso sistematico nella sua propaganda fu, nel 1951, il leader della destra israeliana Menahem Begin: rivolse esplicitamente l’accusa di essere “nazista”, solo talvolta derubricata in “complice dei nazisti”, niente meno che al primo ministro e fondatore dello Stato d’Israele, David Ben Gurion, colpevole di essere favorevole alla normalizzazione dei rapporti con la Germania sei anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Drammatica fu la lacerazione interiore del giovane Stato ebraico, prima e dopo la firma nel 1952 dell’accordo per cospicue Riparazioni economiche, precedute da una solenne dichiarazione pubblica di contrizione pronunciata dal cancelliere tedesco Konrad Adenauer al Bundestag.
Del resto Menahem Begin non rinunciò mai all’abitudine di citare il genocidio ebraico (in cui erano periti anche i suoi genitori) per denigrare i suoi avversari interni o esterni; neppure quando divenne a sua volta primo ministro d’Israele. Nel 1982 giustificò la decisione di invadere il Libano insistendo sul concetto che “l’alternativa sarebbe una nuova Treblinka”. Va notato che, se possibile, Treblinka è ancora peggio di Auschwitz, perché in quel lager sito poco a nord di Varsavia, dove furono liquidati a centinaia di migliaia i residenti del ghetto, si veniva trascinati senz’altra prospettiva che l’immediata soppressione. Quando Begin si avventurò in un tale paragone storico per legittimare la sua scelta bellica, un anziano sopravvissuto ai campi di concentramento, Shlomo Schmalzman, reagì presentandosi a Gerusalemme nella sede dello Yad Vashem, il sito eretto a memoria delle vittime della Shoah. In quel luogo simbolico Schmalzman iniziò uno sciopero della fame, denunciando come blasfemo l’uso strumentale del genocidio ebraico da parte del premier. Ma in pochi gli diedero retta.
Naturalmente si è propagato per reazione, tra chi vuole manifestare la sua ostilità nei confronti d’Israele, il ricorso al medesimo artificio retorico. Per ferire la sensibilità dell’interlocutore, cosa c’è di meglio che scagliargli addosso la memoria delle sue cicatrici? Poco importa l’incongruità e la sproporzione dei riferimenti (Ramallah come il ghetto di Varsavia, Gaza come Auschwitz…), l’importante è rovesciare sugli eredi delle vittime l’offesa più grave: non siete diversi dai carnefici. Un’assurdità, ma l’ignoranza ne favorisce la propagazione.

A un ebreo come me che ha avuto la fortuna di nascere nove anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, grazie alle provvidenziali scelte migratorie dei suoi familiari, è capitato quindi di vivere sia la fase della dissimulazione che il successivo exploit memorialistico dell’Olocausto. Per intenderci: gli anni in cui senza bisogno di chiedere troppo avevamo introiettato il divieto di acquistare fossero pure solo delle matite “made in Germany”; ma nello stesso tempo era impensabile ottenere notizie sulla famiglia scomparsa del papà. L’imbarazzo con cui venivano accolte le prime testimonianze pubbliche al processo di Gerusalemme contro il burocrate della deportazione Adolf Eichmann, quasi che la loro crudezza le connotasse d’impudicizia. La lettura altrettanto disagevole di Primo Levi. E solo verso la fine degli anni Settanta la rappresentazione di massa, in forma di serial televisivo allestito per il pubblico tedesco, richiamato anch’esso al faticosissimo impegno di trasformare la rimozione privata in memoria collettiva.
Questa seconda fase di apprendimento generalizzato ha coinvolto naturalmente per primo il popolo ebraico, in Israele e nella diaspora; ma con encomiabile rigore vi si è dedicata un’intera generazione di intellettuali democratici tedeschi, figli ribelli della Germania nazista. L’insieme di questa elaborazione ha acquisito un peso crescente nella cultura occidentale, definendo lo spartiacque di una nuova presa di coscienza su temi divenuti cruciali come il razzismo, i diritti universali, il dovere di sanzionare i crimini statali contro l’umanità, il riconoscimento della stessa inedita nozione di genocidio.
E’ opportuno però ricordare che tale presa di coscienza di cui si è impregnata l’intera cultura occidentale, non è riuscita a oltrepassare i suoi confini e anzi ha generato sospetti e resistenze. Se si escludono la Germania e (solo parzialmente) l’Austria, le altre nazioni europee in cui fu perpetrato lo sterminio ebraico si guardarono bene –per convenienze politiche, controversie etniche e pregiudizi religiosi- dal un analogo sforzo di ricostruzione storica. La Polonia fatica tuttora a fare i conti con il suo antisemitismo che precedette e favorì l’immane strage di tre milioni e mezzo dei suoi concittadini; nei paesi baltici e in Ucraina, ma anche in Ungheria e in Romania, vengono onorati come eroi della resistenza anticomunista e patrioti artefici dell’indipendenza molti collaborazionisti del nazismo, senza il cui apporto non sarebbero state possibili dapprima le fucilazioni di massa e in seguito il trasporto verso le camere a gas.
Un moto di ulteriore diffidenza nei confronti della cultura occidentale impegnata a celebrare la memoria dello sterminio ebraico, si è propagato in tutto il Terzo mondo, naturalmente a cominciare dai paesi arabi in guerra con Israele. L’accusa dapprima insinuata e poi resa esplicita è di strumentalità. Ammesso (e non sempre concesso) che gli ebrei d’Europa siano stati vittime di un genocidio, si ribatte che la Shoah verrebbe enfatizzata facendo così torto ad altri popoli sterminati e privilegiando gli ebrei uccisi rispetto alle altre numerose vittime della Seconda guerra mondiale. Dunque la memoria della Shoah sarebbe finalizzata a delineare un’odiosa scala di valori, allo scopo di minimizzare le sofferenze dei nemici dell’Occidente. Ancora una volta ritorna lo stereotipo degli ebrei in grado di utilizzare il potere finanziario e mediatico al mero scopo di propagare un indebito senso di colpa. Sarebbe cioè per calcolo, e non per uno spontaneo bisogno di conoscenza, che proliferano opere letterarie, storiche e cinematografiche sulla Shoah. Ne consegue un’insidiosa sollecitazione alle nuove generazioni occidentali: liberatevi finalmente di questo fardello! E tornano in auge le più grossolane teorie negazioniste senza che l’ormai imponente mole di documentazione esistente sul progetto di distruzione totale dell’ebraismo europeo riesca a debellarle.

Se questo è il quadro a settant’anni di distanza dall’Olocausto, diviene lecito porsi una domanda scomoda. A cosa potrà mai servire la cura di una buona memoria, quando si tratta di cimentarsi con l’inesplicabile? Perché questo è il punto. Proseguire la ricerca storica, la raccolta delle testimonianze, l’elaborazione narrativa del vissuto immedesimandosi nelle vittime e –perché no?- nei carnefici, si conferma un impulso insopprimibile. Negli eventi che trasformarono l’area socialmente più evoluta e culturalmente più raffinata del pianeta in un catastrofico, dissennato teatro di abiezione, riconosciamo la presenza di un male insito nella civiltà industriale che l’ha consentito. Sappiamo che potrebbe ripetersi, e anzi su scala minore si è già ripetuto di nuovo in una regione europea come i Balcani. C’è qualcosa di familiare, una presenza del male che alligna costantemente nella dimensione pubblica e privata delle nostre relazioni. Continuiamo a cercare e a ricercare, lo avvertiamo giustamente come un dovere anche di fronte alle obiezioni velenose di chi nega l’evidenza e propaga in forme nuove lo stesso odio. Eppure, mano a mano che procediamo dobbiamo prendere atto di scontrarci con un mistero, cioè con l’inesplicabile. Fare i conti con la dimensione umana dell’irrazionalità è stata la sfida delle menti migliori del secolo scorso, il secolo dei totalitarismi e dei genocidi, il secolo della Shoah. A noi tocca proseguirla con tenacia quand’anche ci assalga il dubbio che la meta sia irraggiungibile. Per questo abbiamo bisogno di aggrapparci a dei punti fermi, a risultati certi acquisiti nella ricerca. La forma del dizionario si rivela quindi preziosa.
Il Dizionario dell’Olocausto ha la preziosa modestia di un’opera collettiva in cui ciascuno studioso, tutti autorevolissimi, reca il suo sassolino. Perché la memoria non diventi una religione ma si perpetui come indispensabile guida, provvisorio insegnamento.

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