Sebbene debole, Obama resta senza rivali

mercoledì, 25 gennaio 2012

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Se vi può consolare, neanche negli Stati Uniti la politica se la passa tanto bene. Avevamo appena preso atto della delusione suscitata dalla presidenza Obama, cui non è bastata l’immagine suggestiva per dare risposte incisive alla crisi economica, quand’ecco che i suoi avversari repubblicani si rivelano incapaci di offrire un’alternativa credibile.
Non era mai successo che nel giro di tre elezioni primarie consecutive il successo arridesse a tre candidati diversissimi fra loro, col risultato di azzopparsi a vicenda.
In South Carolina l’inaspettata rivincita del vecchio Newt Ginghich ripropone l’eterno ritorno in auge dell’”antipolitica”, cioè della sfiducia generalizzata nel sistema. Per colmo di paradosso, il vecchio speaker repubblicano che guidò l’offensiva contro il presidente Clinton per la sua relazione con la stagista Monica Lewinsky, ora si è avvantaggiato rintuzzando con veemenza in tv le accuse analoghe d’infedeltà coniugale rivoltegli dal giornalismo “liberal”. Non andrà lontano, ma intanto dissemina confusione nel campo repubblicano, dove il favorito Mitt Romney paga un’eccessiva disinvoltura fiscale (negli Usa non si scherza con la disciplina fiscale) che viene a sommarsi alla diffidenza del mondo evangelico nei confronti della setta dei mormoni, di cui egli fa parte. Come se non bastasse, l’ala più conservatrice dell’elettorato repubblicano viene attratta da un outsider di formazione religiosa integralista, Rick Santorum, buono per sottrarre consensi ai rivali ma per sua stessa vocazione minoritario.
Sospendo qui la disamina sui rivali di Obama, ben sapendo che la democrazia americana può sempre concedere spazio in futuro a sorprese oggi ancora imprevedibili, ma vi segnalo che il dilemma della destra americana non è poi così dissimile da quello in cui si dibatte la destra italiana: cavalcare le pulsioni anti-élitarie, proporsi come custode dei valori tradizionali e degli interessi dei “piccoli” contro la tecnofinanza cosmopolita? Oppure sposare la causa impopolare ma solida dei poteri forti di Wall Street? Grande è la confusione dei populisti al tempo della depressione economica in cui declina la superpotenza americana.
Certo, con il medesimo dilemma ha dovuto fare i conti il democratico Obama, senza venirne a capo. Ebbe la meglio sul rivale Mc Cain nel 2008 in seguito al trauma provocato dalla recessione e dai crac bancari-assicurativi. Cavalcò lo scontento e il bisogno di riscatto sociale che penalizzava i repubblicani nel dopo Bush, ma non osò mai, Obama, contrapporsi all’establishment di Wall Street. Finendo per deludere le aspettative popolari e gli gnomi della finanza contemporaneamente. Proprio a lui, il più affascinante inquilino della Casa Bianca dal tempo di Kennedy, è toccato in sorte di simboleggiare l’impotenza della politica nel confronto con gli altri poteri sopranazionali del mondo contemporaneo. Obama potrà anche rivincere le elezioni, vista la penuria di rivali credibili, ma reca su di sé ormai indelebile il marchio della fragilità democratica. La stessa sensazione provata da noi, in Italia e in Europa: che le decisioni importanti sul nostro futuro sfuggano non solo alle procedure elettorali con cui dovrebbe manifestarsi la sovranità popolare, ma neppure vengano prese più nelle stanze del potere politico.
La fatica che stanno facendo i repubblicani nel trovare un anti-Obama, più che dalla forza di quest’ultimo, deriva dall’insufficienza della democrazia alle prese con poteri più grandi di lei.

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