Questo articolo è uscito su “Il Venerdì” di “La Repubblica”.
“Impossibile, grida Pinelli/ un compagno non può averlo fatto”… Quante volte l’ho cantato a squarciagola anch’io, sulle note della ballata di Pino Masi. Ma soprattutto l’ho pensato fin da subito, con la certezza di un adolescente che il 12 dicembre 1969 aveva appena compiuto quindici anni e frequentava la quinta ginnasio al Parini di Milano (l’anno dopo, trasferendomi al liceo Berchet, avrei fatto in tempo a incrociarvi Marco Tullio Giordana). Nelle assemblee e nei cortei ci eravamo sentiti già adulti, respiravamo libertà; nel silenzio allibito di piazza Duomo il giorno dei funerali –c’eravamo tutti- percepimmo l’esistenza di un nemico feroce, senza scrupoli, come il nazifascismo al tempo di guerra.
Perché negarlo? Ci incarognimmo, anche. Quando la televisione proclamava “belva umana” il ballerino anarchico Pietro Valpreda, e la Questura da cui usciva senza vita Pinelli aveva per capo l’ex sorvegliante dei confinati politici antifascisti a Ventotene, chi di noi poteva avere fiducia nello Stato?
Le indagini erano già partite a senso unico nell’estrema sinistra per le bombe piazzate fra Roma e Milano nei mesi precedenti la strage di piazza Fontana. Si accerterà poi che le avevano fatte esplodere i fascisti di Ordine Nuovo, che godevano di complicità negli apparati di polizia. Certo che in piazza anche fra noi c’erano delle teste calde con nostalgie ottocentesche (“Bombe, sangue, anarchia”) o infatuazioni castriste latino-americane (alla Giangiacomo Feltrinelli). Ma si trattava di richiami a tradizioni in disuso (consiglio, in proposito, il recente bel saggio storico di Erika Diemoz, “A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini”, Einaudi) o comunque di avventurieri isolati. Niente a che vedere con la sincronizzazione micidiale di cinque bombe fatte esplodere in contemporanea, una delle quali alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, dove morirono diciassette persone e ottantotto rimasero ferite.
La trama tipica da Guerra fredda che già aveva orchestrato il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia nel 1967, e che ora puntava in Italia a neutralizzare gli effetti politici dell’Autunno caldo operaio e delle lotte studentesche, appariva fin troppo scoperta. No, un compagno non poteva averlo fatto. Eppure a rivoltarsi contro un apparato istituzionale e i suoi media asserviti che sceglievano gli anarchici come capro espiatorio, all’inizio fu solo una piccola minoranza della classe dirigente italiana. La pièce teatrale “Morte accidentale di un anarchico”, che poi avrebbe fatto il giro del mondo, fu rappresentata da Dario Fo e Franca Rame alla Comune di via Colletta meno di un anno dopo. Nacque un’attività di controinformazione che si sarà pure macchiata di imprecisioni ed eccessi, come la campagna personale di cui fu vittima il commissario Calabresi, ma coinvolse le energie migliori del giornalismo democratico, da Marco Nozza a Camilla Cederna, da Piero Scaramucci a Giorgio Bocca, contribuendo a aprire degli spiragli decisivi nel muro di gomma della magistratura milanese. Se l’informazione italiana non deve solo vergognarsi per il modo in cui rappresentò una strage ordita dall’estrema destra con complicità interne agli apparati statali, lo dobbiamo all’impegno di quella minoranza.
Chi ancora oggi, a quarantatre anni di distanza, insiste a descrivere il clima d’odio di allora come frutto di una cultura rivoluzionaria di sinistra, addirittura in pretesa continuità con la Resistenza armata al nazifascismo, commette un falso ideologico. I fatti parlano chiaro: nel 1969, nel pieno di un movimento democratico impetuoso –aspro e conflittuale, certo, ma ricco di istanze culturali di modernizzazione della società italiana- qualcuno scatenò per stroncarlo una vera e propria strategia omicida ricorrendo al terrorismo delle stragi. A partire dal 1969 l’attentato vile e senza firma, nelle piazze e sui treni, farà dell’Italia il paese tristemente famoso per le stragi rimaste quasi sempre impunite. Sollecitando non solo i militanti del movimento, ma settori importanti della cultura a individuare negli apparati repressivi dello Stato non la garanzia neutrale degli equilibri democratici, bensì un opaco ricettacolo di trame e coperture.
Molti di noi si sono incarogniti, ho scritto. Correttamente gli storici indicano nel 12 dicembre 1969 la data della “perdita dell’innocenza”. L’udienza minoritaria, ma tragica nei suoi esiti, di cui beneficiarono i fautori della lotta armata, è storia nota degli anni successivi: l’idea cioè che nel Paese delle stragi impunite bisognasse farsi giustizia da sé, e alla violenza bisognasse rispondere con la violenza. Anche il brigatismo omicida, il terrorismo di sinistra, trae alimento dalla memoria distorta di piazza Fontana.
La formula della “perdita dell’innocenza” –corretta nell’indicare l’assoluta sorpresa rappresentata dall’irruzione dello stragismo sulla scena pubblica italiana- non deve però indurci a considerare idilliaci gli anni precedenti il 1969. Sta per essere pubblicato da Bompiani un libro di Mirella Serri dal titolo “Sorvegliati speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980)”, in cui si citano migliaia di rapporti di polizia e carabinieri, spesso grotteschi, archiviati presso il Ministero dell’Interno. Il sospetto e l’ostilità con cui gli apparati di sicurezza dello Stato, in continuità con il periodo fascista, dispiegavano un’ottusa sorveglianza su buona parte dell’intellighenzia italiana, è solo l’ultima testimonianza di un ricorso al sopruso e di un’infedeltà alla norma democratica proseguiti lungo tutto il dopoguerra.
Non fu certo per un abbaglio ideologico –come si è di recente voluto far credere, confidando sulla smemoratezza e sulla disinformazione- se centinaia fra i più prestigiosi intellettuali italiani testimoniarono nel 1971, di fronte all’andamento del processo per la morte di Pinelli, lo “sdegno…di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini”. Da Giorgio Amendola a Lucio Colletti, da Carlo a Primo Levi, da Norberto Bobbio a Natalino Sapegno, non erano certo obnubilati quando sottoscrivevano “una ricusazione di coscienza…rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni”.
Ne parliamo ancora con disagio. Riconosciamo, ed è giusto, colpe che però impallidiscono di fronte all’accertata connivenza fra gli (impuniti) colpevoli delle stragi e settori dello Stato che li proteggevano, o addirittura li guidavano. E difatti la ferita della democrazia italiana sanguina ancora.