L'”Uscita di sicurezza” e la reticenza di Tremonti

martedì, 14 febbraio 2012

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Ora che Tremonti si è predisposto un’”Uscita di sicurezza” (Rizzoli) con grande battage promozionale, riesumando la sua figura di studioso, io non riesco a dimenticare quel filmato trasmesso all’Infedele meno di due anni fa. Seduto su un palco torinese fra Umberto Bossi e Roberto Cota, l’allora ministro dell’Economia mandava in visibilio la platea leghista con frasi come queste: “La differenza fra noi e la sinistra è che loro vogliono mangiare il cuscus, noi gli agnolotti… Non siamo snob, leggiamo mica i libri, noi!”.
Ho sempre pensato che gli intellettuali trasudano falsità quando vogliono darsi una maschera grossolana. Peggio ancora, descrivono il popolo che scimmiottano molto peggiore di quello che è, mancandogli così di rispetto. Un segno di debolezza, quell’impulso a forzarsi volgare pensando che ciò gli fosse richiesto per accrescere il suo consenso.
E pensare che Tremonti sembrava avercela quasi fatta a completare l’arduo tragitto, riuscito davvero a pochi, da solista dell’accademia universitaria alla leadership politica, dal conto in banca dello studio professionale alla vasta clientela di partito. Sognò da ultimo di realizzare il capolavoro sfiorato ma fallito dal politologo Gianfranco Miglio: diventare l’intellettuale egemone della Lega. Prima di esserne cacciato in malo modo, e magari glorificato post mortem. Ma ora che l’ex ministro dell’Economia viene scaricato dal Pdl con l’accusa di aver boicottato il governo Berlusconi, mentre lo stato maggiore del Carroccio da quando è in disgrazia si disinteressa a lui, come facciamo a fingere che Tremonti sia un pensatore da misurare attraverso i suoi scritti?
Mi stupisce come gli uomini di potere, seppure dotati di non poca intelligenza, dopo avere occupato prepotentemente la scena pubblica nelle loro precedenti incarnazioni, sottovalutino il rilievo cruciale assunto (soprattutto in tempo di crisi) dal valore della coerenza. Prediligendo i perdenti ai vincenti, mi accingevo a leggere il saggio di Tremonti con viva curiosità. Non perché attendessi da lui chissà quali rivelazioni sui vertici internazionali o sulle beghe intergovernative nostrane cui ha partecipato. Rispetto il codice della discrezione, certi diari si pubblicano postumi. Però, accidenti, il dovere del rendiconto personale, discreto ma esaustivo, non dovrebbe sfuggire a un uomo assertivo come Tremonti. La sua biografia richiederebbe delle spiegazioni per consentirgli di essere preso sul serio anche in futuro, non trova? Come si concilia l’attività privata da fiscalista con certa predicazione etica successiva? E gli scudi fiscali con la critica all’economia di carta? La scelta di Marco Milanese come più stretto collaboratore (per dieci anni) e coinquilino, a quale idea della politica allude?
Nel giro di due settimane Daniela Santanchè (ricordiamolo: nel 2008 si era candidata premier in alternativa a Berlusconi) è passata dalla più strenua opposizione al sostegno entusiastico del governo Mario Monti, giustificandosi così: “Solo i cretini non cambiano idea”.
Figuriamoci dunque se non siamo disposti a tollerare le incoerenze, le contraddizioni di un Giulio Tremonti. Ma siccome lui ha scherzato con il fuoco della crisi mondiale e dei nostri risparmi –non senza dare del cretino a chi esprimeva obiezioni su un suo zig o un suo zag- il minimo che possiamo chiedergli, per rimetterlo sul piedistallo dell’intellighenzia, è un puntuale rendiconto personale. Senza cui non c’è “Uscita di sicurezza” che tenga.

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