L’orgoglio bocconiano è un primato infallibile?

mercoledì, 29 febbraio 2012

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Sabato scorso ho partecipato alla cerimonia inaugurale dell’anno accademico dell’Università Bocconi di Milano e ne sono uscito ammirato, ma con un pizzico di delusione che vi vorrei comunicare.
La platea pullulava di protagonisti del potere economico italiano e di rappresentanti delle istituzioni, molto spesso ex bocconiani loro stessi. Riuniti nel compiacimento reciproco per il ruolo decisivo assunto dalla scuola economica bocconiana nel governo del Paese, quale occasione migliore per festeggiare i risultati eccellenti di un amico, un collega, il più bocconiano dei bocconiani, divenuto presidente del Consiglio cento giorni prima?
Insomma, con tutto il rispetto per il corpo docente che sul palco indossava la toga e per la gioventù studentesca che affollava la platea, noi delle prime file eravamo lì per salutare e applaudire il doppio incarico di Mario Monti, capo del governo tecnico e presidente dell’Università privata milanese. A mia discolpa posso aggiungere che io ero lì anche per gratitudine: vari docenti della Bocconi (non la pensano tutti allo stesso modo) sono fra i protagonisti più stimolanti delle puntate televisive dell’Infedele, e i loro allievi non sono da meno. Aggiungeteci che il sottoscritto non si è mai laureato; la militanza politica giovanile che si sarebbe tradotta nel mestiere del giornalismo mi ha trascinato via dall’università dopo soli sette esami, e dunque guardo con invidia a quel senso di appartenenza consolidato nei luoghi del sapere. Una grande scuola sa farsi riconoscere e sa farsi amare: lo si percepiva con commozione in quell’aula magna, già prima che Mario Monti raggiungesse il palco e facesse vibrare le corde della sua personale nostalgia.
Puntuale e orgogliosa la relazione del rettore uscente Guido Tabellini –un economista in odore di Nobel- sulla competitività dell’ateneo proteso all’eccellenza. Dotta e un pizzico trasgressiva la dissertazione di Piergaetano Marchetti –il notaio dei “salotti buoni”, ma sempre con la cravatta rossa- sulla nuova comunicazione online. Toccante, infine, la rievocazione dell’ottantacinquenne Luigi Guatri –forse il più potente dei commercialisti italiani- sull’investitura di Mario Monti come principale interprete dello spirito bocconiano.
Tutto bello, misurato, senza eccessi né sviolinate di dubbio gusto; al contrario con l’ironia soffusa di chi è abituato a ben altri palcoscenici e lì piuttosto sta celebrando una rimpatriata familiare a vantaggio dei più giovani che dovranno seguire l’esempio. Ma allora cosa avrò da ridire, da inguaribile rompiscatole?
Signori miei, ma è mai possibile che in un simile consesso di economisti, riunito a celebrare la massima assunzione di responsabilità di uno dei vostri, e i risultati conseguiti, e il clima di fiducia ritrovata, neanche mezza parola di sfuggita abbiate dedicata alla recessione che infuria e alle sofferenze che sta provocando? Possibile che l’autocelebrazione di una scuola economica non le consenta –in quella cornice solenne- il minimo accenno problematico sulle previsioni sbagliate, sulle ricette anticrisi rivelatesi fallaci, sulla necessità di rivedere i dogmi dell’ortodossia finanziaria insegnata nelle vostre aule?
Non discuto né l’onestà intellettuale né la sobrietà, la compostezza, il rigore. Ma mi chiedo se l’insegnamento non contempli pure un grado di sensibilità alla realtà circostante senza cui diviene arduo sviluppare fra gli studenti quel pensiero critico di cui oggi avvertiamo tanto il bisogno.

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