I corpi scolpiti della gioventù contemporanea

martedì, 3 aprile 2012

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Osservo i corpi perfetti, glabri, tatuati di Federica Pellegrini e Filippo Magnini sulla copertina di questo giornale e penso alla giovanile determinazione con cui giorno dopo giorno loro stessi li hanno scolpiti, si sono scolpiti, riunendo in un tutt’uno estetico inscindibile l’agonismo e la fashion.
Come spesso accade con la migliore letteratura, devo alla recente lettura di un romanzo americano, “L’arte di vivere in difesa” di Chad Harbach (Rizzoli editore), il riconoscimento di quanto sia importante, perfino drammatica, questa dimensione fisico corporale della gioventù contemporanea. Aveva tutto per dispiacermi, il troppo perfetto libro di Harbach: la sceneggiatura già confezionata per un film hollywoodiano; l’autore bene inserito del giro dei letterati di Harvard, per giunta col vezzo di nascondere l’età; la pluri-acclamazione quale miglior libro dell’anno nonché bestseller negli Usa; e, come se non bastasse, l’epicentro narrativo concentrato sul diamante, ovverosia sul campo di baseball, cioè di uno sport che mi annoia mortalmente e di cui non ho mai voluto imparare le regole. E invece…
E invece la troppo perfetta, acuminata scrittura di Harbach corrisponde alla ricerca altrettanto esasperata dei suoi protagonisti riuniti in un campus universitario, il Westish College, sulla riva del lago Michigan. Una ricerca che passa attraverso le prestazioni con cui stressano il loro corpo, forzandolo a una disciplina innaturale, ossessiva. C’è il ragazzino umile e sprovveduto Henry Skrimshander che però non sbaglia un colpo col suo guantone acchiappatutto, plasmato per farne un campione dal suo scopritore e capitano Mike Schwartz. C’è un rettore fascinoso con lo spirito d’avventura marinaresco alla Melville, Guert Affenlight, che sulle tribune di quegli impianti sportivi dell’America profonda s’invaghirà come mai avrebbe immaginato, e poi sua figlia Pella, unica donna a traversare un universo maschile scandito dagli allenamenti, le sostanze dopanti, le cartilagini che scricchiolano, il dolore muscolare da inghiottire a sorsi di birra e di scotch.
L’ossessività con cui il malessere esistenziale viene affrontato da questi giovani sottoponendo il corpo a una prestazione supplementare, mentre il sudore cola e la mente si annebbia, creando però il vincolo della reciproca appartenenza fino all’amore –in una dimensione d’omosessualità ambientale, non importa quanto praticata, comunque esplicita- a me pare un dato essenziale della gioventù contemporanea. Si misurano e si riconoscono in quella prestazione o, al contrario, nella nevrosi derivante dal suo rifiuto, sempre potenzialmente anoressico. I frigoriferi degli alloggi studenteschi contengono ogni genere di schifezza, né ci fa appetito il cibo attaccato al fondo delle pentole che Pella scrosta in turni massacranti nella cucina della mensa universitaria, luogo di saggezza, peraltro, dove trova rifugio dopo notti insonni. Già, perché non dormono mai i protagonisti di “L’arte di vivere in difesa”, vivono una corsa perenne, e non si capisce donde promani l’energia che prorompe nuovamente in loro sul terreno di gioco; in cerca di vittoria. O per lo meno di sopravvivenza.
So che il romanzo di Harbach è stato presentato come una metafora della storia americana. Sarà. Io ne sono stato turbato per le verità che ci rivela sulla gioventù; ne sa qualcosa il rettore Affenlight, preso da incantamento fatale. Non se ne abbiano a male Federica Pellegrini e Filippo Magnini se me li vedo abbracciati lì sul bordo del lago Michigan.

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