Ladroni a casa nostra

mercoledì, 4 aprile 2012

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
L’indecoroso epilogo della rivoluzione leghista, scivolata dalle valli del Nord nella bambagia governativa di Roma, per approdare infine sotto l’Equatore nel paradiso speculativo della Tanzania, deturpa irrimediabilmente la biografia di Umberto Bossi. Il leader politico che si pretendeva addirittura fondatore di una nazione, viene accusato ora di avere usufruito di soldi pubblici, denaro non contabilizzato, anche per sostenere i costi della sua famiglia. Il suo vero punto debole, la famiglia, da quando Bossi s’è adoperato nel tentativo di perpetuare il suo carisma per via dinastica nell’inadeguata figura del figlio Renzo. Proprio lui che aveva fatto della sobrietà popolana –un’abitazione modesta, uno stile di vita scapigliato ma rustico- la sua cifra esistenziale, per sistemare la prole ha commesso leggerezze mai digerite dalla base militante. Né giova alla reputazione di Bossi la casa in Sardegna intestata al Sindacato padano di cui è segretaria la sua “badante” Rosi Mauro.
Fine di un mito: la Lega Nord rischia di crepare per indigestione. E rimarrà scolpito come nemesi storica l’atto di ribellione compiuto da un militante dell’hinterland milanese che il 23 gennaio scorso ha presentato il suo esposto alla Procura contro l’accumulo disinvolto di risorse pubbliche, i famigerati rimborsi elettorali, da lui giustamente riconosciuto come scandaloso.
Quanto a Roberto Maroni, che ieri si è affrettato a chiedere la rimozione del già screditato tesoriere Francesco Belsito per fare pulizia nel partito, osando perfino criticare il vertice che l’aveva protetto, bisognerà pur ricordargli l’incarico di ministro degli Interni ricoperto fino al novembre scorso: possibile che Maroni non disponesse al Viminale degli strumenti necessari a verificare per tempo la spregiudicatezza dell’uomo preposto a gestire le finanze della Lega? Anziché scagliarsi contro Roberto Saviano che denunciava le relazioni pericolose intrattenute da alcuni politici nordisti con le cosche calabresi, non sarebbe toccato a Maroni per primo fare la pulizia che tardivamente invoca? Ha avuto forse da ridire Roberto Calderoli quando il Carroccio gli affiancò proprio Belsito, con l’incarico di sottosegretario, nel suo Ministero della Semplificazione normativa?
Nel Comitato amministrativo federale della Lega Nord, insieme all’indagato Belsito, siedono due grossi calibri come Roberto Castelli e Piergiorgio Stiffoni. L’8 marzo scorso dichiararono di aver esaminato accuratamente il bilancio del partito senza trovarvi alcuna irregolarità, e giustificarono così la decisione di confermare “fiducia assoluta” al presidente del Consiglio regionale lombardo, Davide Boni, inquisito per corruzione. Già avevano mentito, negando che la Lega avesse effettuato investimenti speculativi in Tanzania; investimenti per milioni di euro confermati viceversa ieri dallo stesso Belsito. Con quale credibilità i dirigenti leghisti possono proclamarsi adesso “parte lesa”?
La vetusta insinuazione di una “giustizia a orologeria” che si accanirebbe contro un partito coraggioso ritornato all’opposizione, difficilmente commuoverà un’opinione pubblica sbalordita dalle cifre accumulate grazie a una legge ingiusta. La quale permette a ristrette oligarchie che si sottraggono a ogni verifica democratica (la Lega Nord non tiene il suo Congresso federale da ben dieci anni, in barba allo Statuto) di arricchirsi spendendo molto meno di quel che incassano. E di amministrare in totale opacità queste risorse, con rendiconti irregolari. Ciò che induce la magistratura a ipotizzare per la prima volta l’accusa di truffa ai danni dello Stato, visto che si tratta pur sempre di soldi pubblici.
Francesco Belsito non è un leghista della prima ora, bensì uno spregiudicato profittatore che ha avuto accesso al “cerchio magico” nella fase degenerativa del movimento, coincisa con la menomazione fisica di Bossi e lo stringersi dell’alleanza con Berlusconi. Ma ormai il Carnevale è finito per davvero. Nessuno può sognare più un ritorno alla Lega delle origini.
Lo sa bene per primo Roberto Maroni, che ora resta in disparte nell’attesa di un passo indietro di Umberto Bossi, confidando che l’apparato leghista lo riconosca quale legittimo successore. Un’attesa che rischia però di essergli fatale: nelle settimane scorse Maroni ha commesso l’errore di offrire copertura a Davide Boni, evitando di pretenderne le dimissioni dalla carica istituzionale che ricopre. Calcolava forse che tale indulgenza lo avrebbe favorito nel presentarsi come salvatore dell’intero movimento, ma ora la sua indignazione giunge a scoppio ritardato. Il gruppo dirigente della Lega è composto da quadri giunti alla quarta, quinta legislatura, un ceto di capipartito che ormai ha ben poca credibilità quando sollecita le pulsioni dell’antipolitica nell’elettorato. Lo stesso Maroni rischia quindi di rimanere travolto dalle macerie del movimento che aspira a rinnovare.
Fa paura il vuoto politico evidenziato dagli scandali che si susseguono nel finanziamento pubblico dei partiti, da Lusi a Belsito. Nei giorni scorsi, sulla spianata di Pontida, una mano sconosciuta aveva corretto l’enorme scritta “Padroni a casa nostra” in “Ladroni a casa nostra”. De prufundis. Solo che, uno scandalo dopo l’altro, un partito azzoppato dopo l’altro, anche la democrazia rappresentativa rischia di uscirne mortalmente ferita.

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