I debiti e la religione del capitalismo

mercoledì, 18 aprile 2012

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
“Gli italiani (i greci, gli spagnoli, i portoghesi, gli irlandesi, gli argentini…) hanno vissuto per troppo tempo al di sopra delle loro possibilità!”. Quante volte ve lo siete sentiti ripetere in tv da economisti o manager dal volto contrito, e poco importa se mediamente chi lancia quel monito ha un tenore di vita nettamente superiore ai destinatari?
L’importante è che passi il messaggio: finita è la cuccagna, care le mie cicale. Segue il tempo dell’espiazione, del risanamento che contempla per sua stessa natura la sopportazione di sacrifici, l’autodisciplina.
La nuova élite governante è portatrice di un codice morale adeguato al tempo della recessione prolungata: il debito pubblico che ci sovrasta è una grande colpa collettiva; solo onorandolo, garantendo cioè ai mercati la nostra solvibilità, potremo aspirare a una riabilitazione. L’insolvenza, cioè il mancato pagamento degli interessi sul debito, per quanto mostruoso possa esserne il carico, e per quanto depressivi possano risultarne gli effetti sulla vita reale delle persone, viene presentata a noi come una vergogna, se non un crimine. Qui l’economia pretende d’imporsi come etica, e pazienza se il Padre Nostro recita “rimetti a noi i nostri debiti così come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, e pazienza se la Bibbia contemplava la regola del Giubileo che ogni sette anni cancellava i debiti.
La religione del capitalismo adora un Dio-Finanza che si abbevera del nostro senso di colpa di fronte all’oggettività delle aspettative dei mercati: quelli non sono in grado di pagare? Insieme al denaro perderanno l’onore, e diminuiranno i loro diritti.
Ida Dominijanni sul “Manifesto” sostiene che sono due facce della stessa medaglia l’etica gaudente di Berlusconi che colonizzava i nostri desideri, e l’etica sacrificale di Monti che implica il senso di colpa per conseguire rigore e autodisciplina. Godimento e penitenza.
Non è solo un esercizio del potere che si adegua alla congiuntura economica. Stiamo parlando delle nostre vite, della psiche umana assoggettata per mezzo dell’ossessione del debito che incombe su di noi. Colpisce in special modo, anche se ne parliamo malvolentieri, il fenomeno degli imprenditori che si tolgono la vita in seguito a un fallimento aziendale, cioè all’oppressione dei debiti. Le statistiche sono inequivocabili nel descriverci un incremento di questi atti di disperazione.
Che strano. In Italia è rarissimo (mi sovvengo di alcuni casi vent’anni fa) il suicidio di un politico o di un finanziere coinvolto in uno scandalo. Per quanto degradanti si manifestino le ruberie, l’abuso di privilegi, le menzogne scoperchiate, il senso di vergogna dei protagonisti della nostra scena pubblica non pare traumatizzarli quanto invece ferisce gli imprenditori e i lavoratori che perdono stabilità e benessere. Quasi che apparire ladro fosse meno disdicevole, nella nostra società, che risultare insolvente. Non importa se il nostro diritto preveda (in teoria) il carcere per i ladri, non per i debitori. L’onta dell’inadeguatezza, la perdita di status, il debito come disonore, uccidono più della corruzione manifesta.
Il guaio è che il sistema finanziario si nutre di questa reiterata imposizione del debito, che sia privato o pubblico, senza cui verrebbe meno anche il guadagno. Ma siamo proprio sicuri che verrebbe giù il mondo se un governo decidesse che pagare gli interessi sul debito non è per forza la sua missione prioritaria?

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