Ausmerzen, il libro

mercoledì, 25 aprile 2012

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Lo speciale rapporto dei veneti con la psichiatria dipenderà forse dal fatto che sono un po’ tutti matti, da quelle parti? Città e campagne che il capitalismo non ha mai irreggimentato del tutto nella sua regola tayloristica. Modernità imbevuta di strapaese. Fatto gli è che da Zanzotto a Rigoni Stern, da Malerba fino alla generazione irregolare dei Diamanti, Stella, Bettin cui è lecito accostare un maestro del teatro italiano contemporaneo qual è Marco Paolini, il Nord-Est si configura come il laboratorio intellettuale critico più sensibile ai temi della diversità. Forse per contrasto alla cultura retriva di chi governa su quel territorio. Sarà un caso che pure la misconosciuta (da noi) riforma della psichiatria –valorizzata invece come esemplare in tutto il mondo- sia stata intrapresa da Franco Basaglia lassù fra Gorizia e Trieste?
Antiretorica eppure grave, intima e solenne come solo lui è capace di modularla riempiendo la scena, la voce di Marco Paolini ha saputo così riformulare per noi il dubbio progressista più scabroso del Novecento: vale la pena dissipare risorse, in tempo di penuria, per mantenere in vita dei “mangiatori inutili”?
Il computo indecente dei risparmi di cui beneficia una società “sana” praticando la sua igiene, cioè eliminando le “vite indegne di essere vissute”, è stato recuperato in un foglietto sfuggito alla distruzione degli archivi nazisti. Lista ritrovata in un armadio a Hartheim: “E’ calcolato che fino al 1 settembre 1941 sono stati disinfettati 70.273 pazienti… Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiamo fatto risparmiare 4.781.339,72 kg di pane; 19.754.325,27 kg di patate… E inoltre 2.124.568 uova”.
L’appunto autografo di Hitler che ordinava l’eutanasia, cioè la soppressione dei disabili, si presenta caritatevole, rivolgendosi ai medici e “autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio”. Ma non fatevi illusioni: se Marco Paolini ha sentito il bisogno di riscrivere completamente il testo teatrale che l’anno scorso inchiodò al video 1.709.000 telespettatori, proponendocelo ora nella forma compiuta di un libro (“Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute”, pagg. 177, Einaudi, euro 12), è perché non possiamo permetterci la consolazione di scaricare per intero quell’abominio tra le colpe storiche del Terzo Reich.
Vero è che la pratica di selezionare in quanto esistenze-zavorra i disabili e i malati di mente, così come di procedere alla loro sterilizzazione fin dal luglio del 1933, con l’istituzione di centottanta apposite corti genetiche, e poi di sottrarli alle famiglie, rinchiuderli in sei centri pseudo-ospedalieri, sottoporli a diete omicide, infine eliminarli nelle prime piccole camere a gas allestite dal Reich, è riconosciuta dagli storici come la fase preparatoria dell’immane sterminio pianificato industrialmente nei lager dal 1942. Non solo. La collaborazione disciplinata di medici, infermieri, psichiatri, autisti e la rassegnazione con cui le famiglie sopportavano il prelievo forzato dei congiunti disabili, rivelarono ai gerarchi di Hitler quanto manipolabile fosse una società totalitaria assoggettata nel terrore. Anche se il timore di uno scandalo pubblico propagato dai familiari per questa strage degli innocenti, indusse il Reich a circoscriverne le modalità dopo il 1941.
Non credo però che Marco Paolini avrebbe proseguito la sua ricerca fino a scrivere questo libro stupefacente se a sollecitarlo non fosse stata una scoperta imbarazzante: l’eugenetica, pseudoscienza della selezione ottimale della specie umana, ben prima del nazismo, e ben oltre, affonda le sue radici nel positivismo della razionalità occidentale. Da Cesare Lombroso a Francis Galton, da Alexander Graham Bell fino a Konrad Lorenz, i teorici dell’eugenetica sono stati riconosciuti dall’establishment come alfieri del progresso. La dogmatica delle compatibilità economiche e un’ambigua nozione di progresso nella ricerca medica, si sono combinate nel legittimare sperimentazioni il cui retroterra non è sempre e solo necessariamente razzista. Certo, nel dopoguerra vigeva ancora in Svizzera la sterilizzazione dei Rom e dei Sinti; ma in Svezia a motivare simili pratiche eugenetiche non era il pregiudizio etnico bensì la pretesa “bonifica degli elementi biologicamente tarati”.
Così la ricerca di Marco Paolini e di suo fratello Mario, musico terapeuta, è proseguita un anno oltre la rappresentazione dello spettacolo teatrale. Ma non ne ha disperso l’impatto drammaturgico che in Paolini consiste nell’abilità di personificare il racconto, a tratti perfino capace di humour, umile nell’immedesimazione: cosa avremmo fatto noi al posto di quelle infermiere, abituate a praticare iniezioni a prescindere che guarissero o sopprimessero, in obbedienza alle prescrizioni mediche? E il medico che rivendicava la sua funzione sociale a beneficio di una collettività impoverita che doveva pur risparmiare per sopravvivere, dandosi priorità di tutela, e che magari si sforzava di non lasciar soffrire, sopprimendola, la vita indegna di essere vissuta, siamo così certi avesse una sensibilità tanto diversa dalla nostra? Non agiva forse anch’esso per il progresso?
Certo Paolini è capace di esprimere lo sdegno, attraverso un’ingenuità sapiente: “A ben guardare i centri di uccisione sono organizzati come macelli, travestiti da cliniche ma macelli. Soltanto la necessità di intrattenere rapporti con le famiglie, di giustificare i decessi, li distingue da una macelleria”.
Eppure prevale la naturalezza di quella scelta eugenetica di selezione che, infine, porterà complessivamente alla morte procurata di trecentomila esseri umani, censiti in un ufficio di Berlino al numero 4 di Tergartenstrasse e prelevati uno ad uno nelle loro case. Non si spiega altrimenti la scoperta, umiliante per le truppe d’occupazione statunitensi nel luglio del 1945, da cui prende spunto il racconto. Finita ormai da oltre due mesi la guerra, a Kaufbeuren-Irsee, non lontano da Monaco di Baviera, nell’ospedale psichiatrico (“Luogo per sanare e curare”, recita il cartello all’ingresso) si è continuato a sopprimere i ricoverati. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, l’esercizio di una deontologia a prescindere dagli ordini del regime nazista ormai deposto.
Attraverso le testimonianze di medici e infermieri (solo due di essi si toglieranno la vita) Paolini ci restituisce lo stupore di chi non riteneva di avere nulla da rimproverarsi. Straziante è il ritratto di Ernst Lossa, soppresso all’età di quattordici anni nonostante la sua strenua resistenza alla Dieta E, completamente priva di grassi. Ancor più piccoli di lui sono i ragazzini italiani dell’ospedale psichiatrico di Pergine in Valsugana, sui quali una corrispondenza burocratica narra sperimentazioni crudeli, sempre “a fin di bene”.
Mi piace ricordare infine l’incontro con una donna straordinaria che ha introdotto Mario Paolini alla ricerca di “Ausmerzen”: Alice Ricciardi von Platen. Era una giovane dottoressa tedesca nel 1946, quando venne incaricata dall’ordine dei medici di raccogliere testimonianze per il secondo processo di Norimberga. Quei ricordi terribili non ne hanno scalfito la dolcezza, fino a quando si è spenta in terra toscana nel 2008.

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