Romiti, Del Vecchio e la finanza che sbanda

mercoledì, 2 maggio 2012

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Mi è dispiaciuto l’altra sera che Cesare Romiti abbia concluso la sua intervista da Fabio Fazio dicendo una bugia grossolana: “No, non sono pentito dei licenziamenti Fiat del 1980 perché grazie ad essi la Fiat ha potuto assumere successivamente un numero maggiore di lavoratori”. Magari fosse vero. Da allora l’azienda torinese ha tagliato drasticamente i suoi organici e ha investito quote crescenti dei suoi profitti in attività finanziarie estranee alla produzione automobilistica. Un pessimo affare per l’Italia.
Peccato, perché il libro-intervista scritto da Cesare Romiti con Paolo Madron (“Storia segreta del capitalismo italiano”, Longanesi) è una retrospettiva appassionante. Forse reticente sui rapporti fra Gianni Agnelli e Mediobanca negli ultimi anni (molto tesi), di certo distratto su certi poteri romani ben noti ai due autori come Luigi Bisignani, e però aspro e lucido come sa esserlo il vecchio capitano d’industria rimasto giovane dentro.
Lo cito perché impressiona ancora la devozione di Romiti nei confronti del suo grande protettore Enrico Cuccia, il fondatore di Mediobanca e con essa dell’economia di relazione all’italiana, ragnatela di salotti buoni e patti di sindacato incrociati per evitare la concorrenza e mantenere il controllo sulle imprese anche quando se n’è dilapidato il valore. Sarà un caso se oggi traballa un architrave come Mediobanca, per il rischio di dover dichiarare in sofferenza più di un miliardo di euro prestati a un protetto di Cuccia, Salvatore Ligresti, non proprio uno stinco di santo, ma in grado di trascinare molti potenti nel suo eventuale fallimento?
Nei giorni scorsi si è divertito a sparare a palle incatenate contro la viziosa consorteria finanziaria italiana un coetaneo di Romiti, Leonardo Del Vecchio, che i soldi può vantarsi di averli fatti vendendo occhiali in tutto il mondo, mentre gli altri trafficavano in speculazioni, fusioni, salvataggi di amici degli amici. Difficile dargli torto. Il patron di Luxottica, da decenni ormai con la testa a New York, anche se la produzione resta concentrata nella provincia bellunese, fatica a giustificare i manager-finanzieri che per esempio si accordano (Generali, Mediobanca, Intesa Sanpaolo) per rilevare a caro prezzo le azioni Telecom di Tronchetti Provera: un po’ per salvare un loro simile dal fallimento, un po’ per compiacere il governo difensore dell’italianità delle imprese. Del Vecchio ovviamente non ha bisogno di acquisire quote del “Corriere della Sera” per godere di buona stampa, né gli interessa nominare direttori amici che poi sparlino di avversari (che non ha) o sponsorizzino il politico gradito.
Con la sua intervista-bomba rilasciata proprio al “Corriere della Sera”, Del Vecchio è già riuscito a ottenere l’impegno dell’ad delle Generali, Giovanni Perissinotto: appena possibile porterà la sua azienda fuori dal patto di sindacato Rcs, come già ha fatto Diego Della Valle e come sarà costretto a fare Ligresti, viste le brutte acque in cui naviga.
Se non vi è ancora venuto il mal di testa, lasciatemi aggiungere che per evitare ripercussioni drammatiche del crac Ligresti su Mediobanca e Unicredit, i soliti noti avevano aperto le porte del loro salotto buono all’Unipol, cioè alla finanza rossa. Salvo che l’Antitrust, sollecitato da outsider come Matteo Arpe e Roberto Meneguzzo, gli sta mettendo i bastoni fra le ruote.
Morale della storia: l’impalcatura finanziaria dell’economia italiana scricchiola pericolosamente. Finita la stagione dei Cuccia, dei Romiti, dei Geronzi, dei Ligresti non si trovano (per fortuna) sostituti all’altezza. Solo che nel caos rischiano di farla da padroni figure più opache, anziché nuovi imprenditori che purtroppo all’orizzonte non si vedono.

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