Quale futuro per una Lega senza Bossi?

sabato, 26 maggio 2012

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Non fu certo lo sfarzo a colpirmi l’unica volta che Umberto Bossi mi ricevette a Gemonio, con la moglie Manuela, nell’epoca lontana del secessionismo e del Dio Po. Un villino da ceto medio, e gli arredi da mobilificio brianzolo refrattario al design, testimoniavano la sobrietà di una famiglia pervenuta al benessere da poco. Lasciava semmai interdetti la galleria di ritratti naif del padrone di casa immortalato nelle più varie pose eroiche, dal medievale al contemporaneo, che tappezzavano gran parte delle pareti domestiche. Evidentemente omaggi devozionali ricevuti in giro per le feste padane, esposti in un tripudio autocelebrativo kitch che non può aver lasciato indifferente la prole. La trasmissione dinastica della sovranità di padre in figlio, tipica di un movimento carismatico “sangue e suolo”, trovava nel museo casalingo un’intima consacrazione. Degenerata infine nel grottesco dello scandalo, oltre che nell’umano fallimento di un progetto familiare.
Ora che Bossi somiglia davvero alla caricatura Forrest Gump che ne fa Maurizio Crozza, solitario e malinconico sulla panchina, mentre la cronaca delle paghette e delle false lauree oltrepassa la fantasia della satira, pensarlo seduto in quel tinello a rispecchiarsi nei ritratti della gloria perduta ha un che di drammatico.
Benché sia impietoso a dirsi, per avere almeno una speranza di sopravvivere la Lega deve liberarsi del suo amato fondatore. Lo ha constatato con equazione inoppugnabile Flavio Tosi: se Bossi ammette di aver consentito emolumenti di denaro pubblico ai figli, non può certo fare il presidente federale. Ma se viceversa sposa l’improbabile versione del raggiro perpetrato ai suoi danni, ammesso e non concesso che i militanti gli credano, egli denota plateale inadeguatezza a rivestire il ruolo di Capo carismatico. In ogni caso è finita, e lui lo sa benissimo. Protetto dall’anonimato, un dirigente del nuovo corso leghista lo spiega brutalmente: “Se Bossi non vuole passare per deficiente, se vuole evitare i fischi della nostra gente arrabbiata, gli conviene optare per il buen retiro”.
Ufficialmente il triumvirato leghista non ha ancora preso atto dell’equazione di Tosi, forse confidando che sia lo stesso Bossi a toglierli dall’imbarazzo con una rinuncia alla presidenza annunciata prima del congresso federale. Ma nel frattempo è sintomatico che la violazione del tabù di una Lega senza Bossi stia suscitando proteste solo marginali: alla staffilata del sindaco di Verona replicano alcuni parlamentari della vecchia guardia, ma nessuna figura leghista di primo piano.
La spiegazione è rinchiusa nel tinello di Gemonio. Per quanto la moglie Manuela Marrone e l’antico compagno d’armi Giuseppe Leoni s’affannino a ripetere che “non è concepibile una Lega senza Bossi”, è proprio lui, l’Umberto ferito, a non crederci più. Chi l’ha incontrato alla cena di Lesa, sabato 19 maggio, nell’unica, superprotetta uscita pubblica, ha dovuto constatare l’assenza in Bossi di qualsivoglia spirito di rivincita. E perciò i dirigenti leghisti a lui più vicini ne traggono le conseguenze. “Perché dovrei espormi al linciaggio se lui, il Capo, ha rinunciato a combattere?” , confida agli intimi l’ex capogruppo dei deputati Marco Reguzzoni, che ha sospeso ogni attività politica e si dedica all’azienda di conservazione delle cellule staminali Biocell che ha fondato a Busto Arsizio.
Il bollettino delle iniziative di partito pubblicato su “La Padania” registra da tempo l’assenza del capogruppo al Senato, Federico Bricolo. Anche il sorvegliato speciale Calderoli, una volta tra i più solerti nel rintuzzare ogni critica rivolta a Bossi, sull’equazione di Tosi ha preferito soprassedere. Proprio come i navigatori esperti Roberto Cota, Luca Zaia, Andrea Gibelli che rappresentano la Lega al governo nelle tre regioni padane.
Prima dello scandalo la casta dei veterani, parlamentari ormai da quattro o cinque legislature, confidava bastasse anche un Bossi debilitato a impersonare con la sua sola esistenza la natura carismatica del movimento. Poco importava che il figlio Renzo risultasse un erede improbabile: lo mostravano in giro il minimo necessario come icona della continuità intangibile, per continuare a godere di una rendita di posizione che a loro costava solo il prezzo modico di una fedeltà apparente. Ma ora che la commistione fra interessi privati e ruolo politico della famiglia Bossi si è rivelata clamorosamente in pubblico, solo i cultori più devoti della Lega carismatica riescono ancora a viverla come un fatto naturale. Dovuto.
“Bossi è la Lega”, ti spiegano, “la Lega senza Bossi non è più tale. Cosa può importare, allora, se un uomo che avrebbe potuto arricchirsi come e quando voleva, un leader disinteressato al denaro, lascia che i figli attingano alle casse di un partito che gli deve tutto?”. Non è solo un moto sentimentale. I fedelissimi bossiani, più numerosi di quanto non appaia, ostili a Maroni perché vedono in lui un politico tradizionale dispensatore di realismo ma avaro di passioni, rappresentano l’energia populista in nome della quale tutto si giustifica, perché il fondatore può essere insieme santo e maledetto, ma in ogni caso non è un uomo come gli altri: è la voce autentica del popolo, dunque a suo modo resta comunque un sovrano.
In altre circostanze storiche i populisti bossiani l’avrebbero avuta vinta perfino sullo scandalo. La base innamorata si sarebbe bevuta volentieri la leggenda del Capo perbene raggirato dalle forze del male. Ma è la sconfitta politica, prima ancora della débacle elettorale, che tarpa le ali ai populisti propensi a ignorare le ruberie: Bossi ormai può presentarsi in pubblico solo per invocare perdono, umiliandosi come ha già fatto a Bergamo tra le ramazze della base, quando non era ancora risaputa la storia dei soldi ai figli, cioè l’inquinamento dell’asse ereditario .
Sconfitta politica più scandalo ruberie sono la miscela che rende ineluttabile ciò che fino a ieri non era neppure concepibile: una Lega senza Bossi, o comunque con Bossi isolato ai margini.
Lo stesso Maroni tende a rinviare questo passaggio drammatico perché l’uccisione del padre in un movimento carismatico rischia di produrre un disincanto dal quale non ci si risolleva. Spera che Bossi lo aiuti nel passaggio, accontentandosi dell’onore delle armi. Confida che il fondatore debilitato non commetta l’ingenuità di rivendicare la proprietà del simbolo elettorale e degli immobili di cui è intestatario con la moglie e con Giuseppe Leoni. Una reazione miope e disonorevole, di mera salvaguardia patrimoniale.
Il tentativo di Maroni –disincagliare la Lega dalla sua leadership originaria carismatica ma ormai compromessa- è un azzardo che deve guardarsi non solo dal rimpianto dei bossiani, dalla frustrazione degli amministratori locali sconfitti, dagli etnonazionalismi indipendentisti che covano sotto la cenere, soprattutto in Veneto. Proprio a Maroni, un professionista della tattica politica, tocca vestire provvisoriamente i panni innaturali del populista e adombrare l’ipotesi suggestiva di una Lega che rinuncia alle poltrone romane di Camera e Senato.
E’ un bluff, ti spiegano sottovoce: “Perché farsi del male da soli? Lo slogan ‘basta con Roma’ servirà a sbarazzarsi del vecchio notabilato parlamentare e a decidere, nel congresso federale di fine giugno, che a costo di eleggere solo pochi rappresentanti la Lega si presenti alle elezioni politiche da sola, senza alleanze”. Tanto la partita della sopravvivenza si giocherà dopo il 2013, col tentativo di mantenere almeno in parte il presidio delle regioni del Nord, dove oggi il Carroccio dispone di due presidenti, un vicepresidente e 14 assessorati.
Nel frattempo tocca riabituarsi alla marginalità delle origini, mitizzata come il tempo antico della Lega pura e dura; dimenticando che si trattò di un coacervo litigioso che solo il carisma di Bossi riuscì con fatica a domare, fra continue rivalità localiste e raffiche di epurazioni. Da oltre un decennio la Lega s’era abituata a giovarsi del potere di ago della bilancia negli equilibri romani, valorizzando la vocazione manovriera dei Maroni e dei Calderoli. Poi toccava a Bossi il ruolo dell’incantatore viscerale sintonizzato con la base.
A dispetto del nome che si è scelto per la sua corrente, Maroni non è né barbaro né sognatore. Potrà fare tendenza con gli occhiali rossi e con il rock, ironizzare sul guaio di nome Trota, ma ci vuole ben altro per colmare il vuoto lasciato da Bossi.
Rinchiuso a Gemonio fra i ritratti del suo eroismo perduto, il vecchio fondatore continuerà a incombere sulla Lega costretta a fare a meno di lui. Maestro nel coniugare la furia plebea col buonumore, Bossi subisce in silenzio la pena del ridicolo. Sono i paradossi del populismo quando l’incendio si riduce a fiammella e la brace si scioglie in cenere. Perfino il vecchio dileggiato Miglio, lassù, sta facendosi una risata delle sue: che beffa, proprio quando l’Europa rischia di esplodere frazionata secondo le sue premonizioni, la burocrazia leghista è costretta a ripudiare con Bossi il suo mito fondativo.

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