Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Solo in città, con moglie e figli al mare, invece di dedicarmi ai bagordi nel fine settimana più caldo dell’anno ho frequentato un paio di appuntamenti politici per capire l’aria che tira: devo essere proprio invecchiato.
Venerdì sera alla Camera del Lavoro di Milano è arrivato Pierluigi Bersani, il più probabile candidato premier del centrosinistra, dunque un più che possibile primo ministro di qui a un anno. Lo avevano invitato degli interlocutori critici e severi come Gustavo Zabrebelsky e Sandra Bonsanti di “Libertà e Giustizia”, ma s’è capito ben presto che lo scopo era mettersi in sintonia piuttosto che dividersi. C’era infatti un argomento solo nel quale il gioviale segretario del Pd palesemente non voleva né poteva addentrarsi –lo scandalo riguardante Filippo Penati, persona a lui vicinissima per anni in ruoli di alta responsabilità- e se n’è preso atto rapidamente, passando oltre. Quasi a dire: certe cose le sappiamo della natura del partito anche se non ci piacciono, ma comprendiamo che il partito non può farci i conti pena il dissolvimento, dunque prendiamo atto di questo punto debole e però andiamo avanti. Saggio, realistico, forse inevitabile. Peccato che Beppe Grillo là in fondo sogghigni fregandosi le mani.
Domenica mattina invece sono andato al Palaforum di Assago perché venticinque anni dopo volevo seguire di persona l’ultimo discorso di Umberto Bossi da segretario della Lega. Il vecchio leone, in effetti, ha ruggito sulla faccia del suo successore Maroni come nessuno avrebbe potuto immaginare. Considerandosi non solo il fondatore, ma sul serio il genitore del movimento indipendentista padano –cioè niente meno che di un popolo- Bossi non ha mai pensato che usare per sé e per la sua famiglia i soldi pubblici della Lega fosse poi così improprio. A lui dei soldi gliene è sempre importato moltissimo, ma come strumento di comando, non come lusso da godere in proprio. Perciò era sincero quando accusava di essersi assoggettati a un complotto Maroni e gli altri. Perché l’ex ministro degli Interni non l’aveva avvertito, pur disponendo dei servizi segreti, se il tesoriere Belsito era uomo della ‘ndrangheta? Chi gli ha teso l’infame tranello?
Al di là dell’ammirazione personale per questo personaggio carismatico indomito anche nella sconfitta –dopo di lui è chiaro che la Lega non sarà più la stessa- ho visto riproporsi così il tormento di un partito impossibilitato a dirsi fino in fondo la verità. Maroni deve fingere che Bossi sia stato raggirato da chi rubava, altrimenti come giustificherebbe la sua nomina a presidente a vita? Bossi invece deve credere di essere vittima di un complotto romano e tecnocratico. La diagnosi sulla corruzione interna del movimento alimentato da milioni e milioni di proventi pubblici, quella non se la può permettere nessuno. Pena la dissoluzione. Saggio, realistico, forse inevitabile. Peccato che Beppe Grillo là in fondo sogghigni fregandosi le mani.
Tornato a casa e costretto a una doccia bollente di realtà dalle furie spagnole abbattutesi sui miei beniamini Balotelli e Cassano, ho pensato che il fine settimana forse non l’avevo buttato via; ma che la politica per perpetuarsi necessita di una dose d’ipocrisia, se non di menzogna, sempre più elevata. Nella recita, ora tocca alla falsa ingenuità di Beppe Grillo godere e raccogliere i frutti.