Il capriccio del Qatar

sabato, 14 luglio 2012

Questo articolo e’ uscito su “La Repubblica”.

Il dominio della finanza sull’economia reale continua a riservarci sorprese poco gradevoli, accelerando il dirottamento della ricchezza mondiale verso latitudini remote. L’ultimo capriccio della storia si chiama Qatar. Chi l’avrebbe detto che in pochi decenni un lembo di terra arida e periferica, benedetta dal petrolio e dal gas naturale, avrebbe generato un progetto di egemonia mondiale fondato, anziché sull’ortodossia islamica dell’Arabia Saudita, sulla seduzione contemporanea dei canali televisivi, dello sport e dell’estetica globale (abbigliamento e auto di lusso)?

Evitiamo inutili allarmismi sulla prossima spoliazione del Belpaese, anche se il limitrofo tragitto greco non promette nulla di buono: la contemporanea cessione all’emiro del Qatar dei nostri stranieri d’oro Ibrahimovic e Thiago Silva (in via di esportazione al “suo” Paris Saint Germain), nonché della maison Valentino strapagata 700 milioni di euro, rappresentano movimenti di capitale finanziario per sua natura apolide piuttosto che cessioni di asset nazionali strategici. Ma è probabile che se Berlusconi vende i suoi gioielli a Al-Thani lo faccia in vista di business più sostanziosi: torna in politica giocando in difesa, deve mettere in sicurezza il suo patrimonio, e pazienza se i tifosi milanisti si arrabbiano. Mentre l’Italia declassata dalle agenzie di rating è percorsa dal sentore di ben altri affari in vista, a prezzi stracciati, per i cacciatori con gli occhi a mandorla, gli speculatori russi, i principi arabi.

Si rincorrono le voci sui cinesi che selezionano aziende emiliane di meccanica di precisione e trasferiscono a casa loro i tecnici dei lanifici messi in esubero dalle imprese biellesi; Unicredit non è la sola banca che capitalizza talmente poco da far gola ai nuovi ricchi di Mosca o Singapore; i genovesi Garrone e Malacalza s’erano già portati avanti vendendo raffinerie e acciaierie a russi e ucraini; poi ci sono le navi da crociera, la telefonia, gli stabilimenti automobilistici e chissà quali altre eccellenze nostrane…

Spazzate via le velleità tremontiane e leghiste di resistere alla globalizzazione opponendole impossibili barriere protezionistiche, toccherebbe alla politica discernere quale sia il labile confine tra virtuosa apertura agli investimenti stranieri e colonizzazione.

Abbiamo un presidente del Consiglio che impersona una scuola economica “amica del mercato”. Ignoriamo i contenuti del suo colloquio romano con l’emiro del Qatar avvenuto il 16 aprile scorso, quando Al-Thani denunciò burocrazia e corruzione quali ostacoli principali agli investimenti in Italia. Ma ricordiamo cosa disse Monti un mese prima, al termine di un colloquio con Marchionne e Elkann sul futuro dell’auto made in Italy: “Chi gestisce Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti e per le localizzazioni più convenienti”. Non fosse abbastanza chiaro, il premier rincarò: “So bene che il legame storico tra l’Italia e il gruppo torinese non sempre è stato sano e che forse darebbe soddisfazione a un politico di vecchia maniera potersi vantare di aver insistito affinché la Fiat continui a sviluppare investimenti in Italia. Ma il governo preferisce suggerire che Fiat non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell’Italia”.

Gli eventi successivi, con l’annuncio della prossima chiusura di un altro stabilimento da parte di Marchionne, ci ammoniscono su quale sia il prezzo salato di tale coerenza liberista, rassegnata al trasloco da Torino a Detroit già pianificato sotto il governo precedente.

L’aggressione speculativa ripresa con maggior lena nell’estate 2012 impone al governo di rendere pubblica la sua strategia di politica industriale, sia nei confronti di chi vuole allontanarsi che dello shopping in corso. Altrimenti resteremo ignoranti e stupefatti al cospetto dei nuovi ricchi, declinando solo la nostra impotenza: fra benvenuto servili e lamentazioni da “grande proletaria” in svendita.

Abbiamo letto troppi ritratti coloriti sui nuovi padroni esotici e sulle loro belle mogli. Li rappresentiamo col provincialismo di Totò le Mokò e con la meraviglia folkloristica di Fellini. Gradiremmo invece saperne di più sull’emiro Hamad bin Khalifa Al-Thani e sulla sua strategia egemonica così come su Alexander Knaster, il finanziere amico di Putin che muove sull’Unicredit tramite il fondo Pamplona.

Chi se non il governo deve spiegarci qual è il futuro dell’integrazione/penetrazione nell’economia nazionale di queste forze emergenti della finanza mondiale, in grado di muovere enormi capitali attraverso fondi sovrani oppure al riparo di opachi prestanome? Detto in altri termini: la nuova finanza si sta mangiando pezzi del sistema economico italiano o possiamo vincolarla a suo sostegno? Quali sono gli asset strategici, ad esempio nelle infrastrutture, nelle telecomunicazioni, negli armamenti, che debbono restare preclusi a simili acquisizioni?

Lo stesso mercato del lusso, nel quale finora l’Italia ha saputo mantenere posizioni di supremazia grazie alle sue tradizionali professionalità, in competizione con la Francia, sta proponendoci un dilemma che riguarda l’economia nazionale nel suo insieme. Il lusso “tira”, i suoi potenziali consumatori sono in aumento nei lontani paesi emergenti. Questo spostamento massiccio della ricchezza mondiale può beneficiare in parte anche la nostra penisola come esportatrice di beni, o la condanna alla marginalità? E’ una domanda cruciale per il nostro futuro. Sarebbe meglio non delegare la risposta all’emiro del Qatar.

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