Aleppo per me

martedì, 21 agosto 2012

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Aleppo. Per me Aleppo sono le foto di nonno Elias orgoglioso con la sua prima automobile di fronte al negozio di materiali elettrici in Place de la Poste; vestito all’occidentale in mezzo a notabili arabi baffuti che sorridono all’ingegnere «polacco». Sono le aule della Mission Laïque Française frequentate da mio padre, dalle elementari al diploma di maturità. È il giorno del 1947 in cui viene incendiata l’antica grande sinagoga di Aleppo, così come lo racconta zio Mendel, allora undicenne, tenuto per mano da nonna Teta: «Lo fecero perché costretti, in realtà ci volevano bene», giustifica ancora oggi (a Tel Aviv) gli abitanti della sua città natale. Persino i fuggiaschi la ricordano benevola, cosmopolita, accogliente, evoluta. Sognano di ritrovare l’«Immeuble Gozem» nel quartiere Jemelie.

Non è città di fanatici, Aleppo, crocevia del Levante. Non vi predomina l’ideologia ma semmai lo spirito mercantile. La storia e la geografia ne hanno fatto un crogiuolo di appartenenze, una sublime mescolanza anche nella gastronomia: insuperabili le sue mezze (antipasti) e i suoi baklawa (dolci).

Vi sto parlando di un luogo – la seconda città della Siria, Aleppo – che per me esiste solo nei racconti familiari e nei libri. Più volte ho cercato di ottenere il visto per visitarla – mi veniva da scrivere: «per tornarci» – ma invano.
Mi si sono riaperte le porte del vicino Libano, dove sono nato. Ho potuto intuire le luci di Aleppo dalla vicina Antiochia, che si trova in territorio turco. Così come mi sono affacciato sulla Siria dall’altipiano del Golan, ovvero dalla parte d’Israele. Ma ancora mi è negata la gioia di visitare Aleppo, così come di visitare la tomba del grande cabbalista Chaim Vital (per me una specie di Sigmund Freud seicentesco) a Damasco, dove viene onorato dai mistici musulmani e cristiani, oltre che ebrei.

Leggo costernato delle stragi perpetrate ad Aleppo dal regime di Assad, prossimo alla caduta. La sua crudeltà è proverbiale, da sempre viene rivendicata con compiacimento quale unico mezzo di supremazia.
Ma i racconti dei fuggiaschi dall’Europa del Novecento, così come dei protagonisti di tante altre migrazioni, sono troppo convergenti per essere smentiti: questa città era e tornerà a essere una metropoli di tolleranza e incontro. Verrà smentito chi prevede l’integralismo religioso assumere il comando dopo il dispotismo laico degli Assad.

Viviamo un passaggio storico doloroso. La sfida di un’evoluzione democratica del mondo arabo si gioca qui, fra Aleppo e Damasco, suscitando timori che si estendono dall’Iran ai regni petroliferi del Golfo, e persino oltre, in Russia e in Cina.
Quanto a me, più modestamente, non vedo l’ora di andare in Siria, finalmente.

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