Quei missili lanciati verso la Città Santa nel nome di Dio

sabato, 17 novembre 2012

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Come hanno potuto? Un missile lanciato contro la santità di Gerusalemme. Un missile la sera del venerdì, non appena conclusa la giornata di preghiera dei musulmani; scagliato cioè contro la santità dello Shabbat, la festività ebraica del sabato annunciata da un tramonto inconfondibile: i riflessi dorati delle rocce di Giudea, divenute pietre e mura della Città sacra ai credenti dell’unico Dio. L’ora in cui i fedeli indossano le vesti anacronistiche della tradizione e si affrettano per i vicoli del mercato verso il Kotel, detto Muro delle Lamentazioni, ultimo recinto esterno sopravvissuto del Tempio che l’imperatore Tito distrusse due millenni or sono.
Là dove non aveva osato neppure Saddam Hussein hanno preso la mira, per giunta vantandosene, le Brigate Izzedine al Qassam, braccio armato di Hamas. Poiché la storia nel Medio Oriente contemporaneo viene manipolata grottescamente dai fanatici barbuti sequestratori del sacro, non escludo che i miliziani si autorappresentino continuatori dell’impresa di Saladino: il principe curdo che nel 1187 assediò la Gerusalemme crociata e pose fine, dopo ottantotto anni, al Regno Latino procedendo a quella che i musulmani celebrano come la Liberazione della Sposa: cospargendo di acqua di rose la moschea di al-Aqsa e il Duomo della Roccia per riconsacrarli all’Islam, dopo che i Templari avevano trasformato la spianata nel loro bivacco.
Nella visione degli integralisti Israele è un corpo estraneo destinato all’estinzione né più né meno di quei regni crociati. La parola d’ordine jihad al-Quds –guerra santa per Gerusalemme- resta il distintivo dell’indisponibilità a ogni compromesso territoriale.
Poco prima del lancio dei due missili M-75 un amico aveva telefonato in apprensione per i miei parenti che vivono in Israele, fornendo il suo consiglio: “Digli di andare a Gerusalemme, è l’unico posto sicuro”. La realtà lo ha smentito immediatamente. Anche se la limitata potenza di fuoco dei miliziani di Hamas rende improbabile un pericolo immediato per la Città Santa, la violazione simbolica è compiuta, oltrepassando la nostra immaginazione.
Chi si arroga il diritto di combattere nel nome di Dio -con ciò stesso profanandolo e incorrendo in un delirio di umana, idolatrica onnipotenza- non ha certo paura di frantumare le pietre dorate di Gerusalemme. Lo ha già fatto ripetutamente nei secoli: non c’è luogo santo che non abbia già subito l’ingiuria della distruzione intorno al monte Moriah, l’altura posta al centro della città vecchia che la Genesi indica come sede dello scongiurato sacrificio di Isacco. E dal quale, secondo il Corano, s’involò nel firmamento Maometto con l’arcangelo Gabriele per fare ritorno in Arabia attraverso i Sette Cieli dopo il suo viaggio notturno a Gerusalemme, riconoscibile ma mai citata come tale nel Libro sacro all’Islam.
Così la spianata in cima al monte Moriah su cui fu edificato il Tempio ebraico, e dove in seguito alla conquista islamica del 638 sorse la cupola d’oro del califfo Omar, rimane il luogo della controversia più lacerante. Ma i gerosolimitani destinati a convivere nella Città Santa amano ricordare che il califfo successore di Maometto si guardò bene, dopo la conquista, dal profanare il limitrofo Santo Sepolcro venerato dai cristiani: evidentemente era più saggio di questi fanatici del Terzo Millennio.
Le Brigate Al Qassam twittano da Gaza messaggi finalizzati a spargere fra gli israeliani la medesima paura che opprime in questi giorni la popolazione palestinese vittima dei bombardamenti di Tsahal. La guerra del terrore si combatte su un fazzoletto di terra, e così il zeva adom (letteralmente “colore rosso”) contrassegnato dal frastuono delle sirene sospinge nei rifugi anche gli abitanti della mondana e godereccia Tel Aviv. Ma il tentativo di coinvolgere nell’allarme il sabato di Gerusalemme ha un significato inequivocabile: l’assolutizzazione del conflitto, elevato da controversia territoriale a guerra di religione.
“Gerusalemme è un bacile d’oro pieno di scorpioni”, disse il geografo gerosolimitano al-Muqaddasi già oltre mille anni fa. Lo ricorda Franco Cardini nel bel libro (“Gerusalemme. Una storia”) appena pubblicato da il Mulino. “Tra i profeti di Gerusalemme ho visto cose nefande”, aveva già ben prima preconizzato Geremia. Mentre l’evangelista Marco lamentava: “Oh Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati”. Eppure, nonostante il presagio di sventura che pare rinnovarsi anche nei missili scagliati ieri contro il suo sabato, la città resta meravigliosa, attraente come l’enigma che custodisce, imprescindibile nella sua grazia che non viene meno neppure ora che l’urbanistica contemporanea pare circondarla. Per cui sempre attuale risuona il Salmo 137: “Se ti dimentico, Gerusalemme, si secchi la mia mano destra”.
Sarà mai possibile che la meta dei pellegrinaggi delle tre grandi religioni monoteiste, la Gerusalemme terrena vilipesa continuamente nella sua aspirazione a farsi Gerusalemme Celeste, possa trasformarsi in laboratorio di quella convivenza fra ebrei, cristiani e musulmani che pure ormai è realtà in tante metropoli occidentali?
Non suoni paradossale, ma occorrerebbero uomini capaci di contrapporre alla blasfemia guerrafondaia dei lanciatori di missili una santità laica che è propria dei veri amanti di Gerusalemme. Come il grande studioso della qabbalah Gershom Scholem. Nel 1929 il suo amico Ben Gurion gli chiese un memorandum da consegnare alle autorità inglesi per spiegare loro l’importanza del Muro del Pianto nella tradizione ebraica. Scholem si rifiutò e negò l’accesso alla sua famosa biblioteca; con la motivazione che i temi della religione devono rimanere ben distinti dalla controversia politica. Uomini pii e altrettanto saggi si trovano anche fra i musulmani e i cristiani. Con i missili lanciati contro la Città Santa, il nichilismo contemporaneo vorrebbe impossessarsi del Nome di Dio, e ridurli al silenzio.

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