Il libro di Alexander Stille, figlio di uno pseudonimo diviso in due

mercoledì, 16 gennaio 2013

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
“Mio padre conduceva un’esistenza biforcuta, schizofrenica”. Suona terribile un tale giudizio quando proviene dal figlio che pure ti ha amato e condivide la pubblica ammirazione di cui fosti circondato. Ma Alexander Stille non avrebbe certo potuto rimuovere la disperazione con cui da bambino lo affliggevano i continui scoppi d’ira di quel padre vagante per casa in pigiama, fra pile di giornali che era proibito gettare, dopo aver dettato la sua corrispondenza quotidiana da New York al “Corriere della Sera”. Non può tacere l’umiliazione sistematica cui vedeva sottoposta la madre; la meschinità nel rapporto col denaro; la diffidenza malevola nei confronti del prossimo. “Ricordo che andavo in giro ripetendomi continuamente: ‘Io non sarò mai come lui. Io non sarò mai come lui’”.
E ancor oggi quando Alexander Stille viene avvicinato da un ammiratore di suo padre che ne magnifica la saggezza, la cultura, la simpatia e lo humour, non può fare a meno di pensare all’”operazione di economia psichica” attraverso cui quell’uomo brillante scaricava nella sfera privata –là dove custodiva la sua sicurezza ferita- dosi massicce di ansie e nevrosi.
Immergendosi nell’avvincente vicenda familiare novecentesca da cui l’autore è stato generato, una vicenda che è anche storia dell’antifascismo italiano e dell’America come provvidenziale crogiuolo d’incontri culturali, bisogna ricordare la matrice che Alexander Stille reca impressa nel suo medesimo cognome: egli è il figlio di uno pseudonimo diviso in due.
Ugo Stille, difatti, non è mai esistito. O meglio ce ne sono almeno due, frutto di una complice fantasia giovanile. E’ il nome inciso sulla piastrina militare di Giaime Pintor, il migliore amico di suo padre, quando muore partigiano saltando su una mina nel novembre 1943. Ma prima ancora fu la firma d’invenzione condivisa a Roma da Pintor con il compagno d’università Mikhail Kamenetzki, nato a Mosca nel 1919 e avventurosamente immigrato in Italia, quando i due amici si alternavano nella scrittura di una rubrica per il settimanale “Oggi”, ritrovo di una prima embrionale militanza antifascista. Quel cognome italiano, Stille, il ventitreenne Kamenetzki riuscirà a trasferirlo sul passaporto americano dopo la fuga del 1941 dall’Italia delle leggi razziali. Anche se per gli amici resterà Misha, mai Ugo.
“La forza delle cose. Un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America”, viene pubblicato contemporaneamente in Italia (da Garzanti) e negli Stati Uniti. Reso elettrico, commovente, oltre che rigoroso nella documentazione inedita, dallo sforzo compiuto da Alexander Stille per restituire in pari grado dignità ai due poli antitetici, mai pacificati, della sua famiglia. Perché la sensuale moglie di Ugo Stille, Elizabeth Bogert, donna emancipata della borghesia del Midwest, attratta dal fascino reticente della cultura ebraica in fuga dalla tragedia che ne ha provocato la distruzione nel Vecchio Continente, è a sua volta una figura straordinaria, nella sua fatica. Sopporterà, ma non potrà accettare. Comprenderà il valore di Misha e del suo mondo, anche se lui prima di sposarla neanche un cenno aveva fatto al suo ebraismo, ma non smetterà di detestarne l’antiestetica matrice oestjuden. Nel mentre ripulisce la casa della sorella di Stille trasformata in un immondezzaio dalla mania di lei che non è disposta a buttare via nulla, confida a Sarah, la fidanzata di Alexander che l’aiuta nell’impresa: “Non te ne farei una colpa se decidessi di scartare questo bacino genetico”.
Il pasticcio delle identità custodite nel segreto da Misha, le biografie travisate per giustificare il traffico dei passaporti che garantiscano di sfuggire prima al comunismo sovietico poi al razzismo fascista italiano, con molteplici ricadute nell’apolidia e nel pericolo, feriscono la straordinaria personalità intellettuale di un giovane formatosi alla scuola filosofica di Giovanni Gentile. Col paradosso del 1941, quando si laurea con lode a Roma ma subito deve fuggire in America portandosi in tasca una lettera di segnalazione dello stesso Gentile, ministro del regime che lo discrimina. Approda così a New York un intellettuale cresciuto in una famiglia russa anticomunista le cui relazioni giovanili però si manterranno, dopo la morte di Giaime Pintor, con gli altri compagni della cellula clandestina del Pci, da Lucio Lombardo Radice a Felice Balbo, da Valentino Gerratana a Antonello Trombadori, da Pietro Ingrao fino ai fratelli Natoli. Arruolatosi nell’esercito degli Usa parteciperà allo sbarco alleato in Italia e sarà testimone della rovina del paese che l’aveva respinto. Da quel momento si sforzerà di diventare americano fino in fondo, di più, concepirà il suo lavoro di corrispondente come un vincolo di garanzia per la fragile Italia da salvaguardare nell’atlantismo. Impresa che trasforma il doppio esule in un grande giornalista ma lo conduce a reprimere la sua identità complessa. Sarà al tempo stesso un formidabile analista di politica statunitense e di relazioni internazionali, un ricercato protagonista della mondanità intellettuale newyorkese, ma anche un marito che picchia la sua Elizabeth e rifiuta di trasmettere ai figli il carico significativo della propria biografia. In mezzo alle sue tonnellate di carte in disordine si celano lettere e testimonianze di cruciale interesse (ma non l’ultima missiva del grande amico Giaime Pintor, quella l’ha perduta, chissà se per incuria o per tenersela solo dentro di sé). Precluse agli altri, forse nella convinzione che non potrebbero capire il tumulto esistenziale che la storia gli ha introiettato.
Quando, molti anni dopo, verrà chiamato a Milano per dirigere il “Corriere della Sera” in un momento di sua crisi editoriale, lo angoscerà l’idea di perdere il passaporto statunitense, sua ancora di salvezza. E solo nell’editoriale del 1987 con cui si presenta come direttore, per la prima volta, concederà una riga di riferimento personale a Giaime Pintor con cui condivise lo pseudonimo e alle leggi razziali che ne avevano forzato l’emigrazione. Dopo quarantasei anni di silenzio assoluto, nel corso dei quali nulla aveva fatto perché i suoi figli si avvicinassero all’ebraismo e apprendessero la lingua italiana.
Struggente è il racconto di Alexander Stille sugli ultimi anni dei suoi genitori, piuttosto rassegnati l’uno all’altra che non davvero pacificati. Una delle più frequenti cause dei loro litigi durati una vita era l’horror vacui che impediva a Misha di liberarsi di quintali disordinati di giornali ormai inutili, ciò che esasperava la pulsione di Elizabeth per l’ordine e la pulizia. “Mio padre era un prodotto di quella civiltà ebraica dell’Europa orientale che Hitler ha quasi completamente distrutto –spiega l’autore- nella quale i libri e l’apprendimento occupavano un posto sacro, perché ogni altra cosa nella vita ti può essere strappata (e probabilmente lo sarà)”.
Dobbiamo essere grati a Alexander Stille di questo doloroso sforzo di ricostruzione, a tratti impudico e spietato. Fino all’ultimo ha cercato la confidenza dei suoi genitori, raccogliendone le testimonianze più intime perfino nella sfera sessuale. In fondo avevano vissuto un’attrazione fulminea: la madre era entrata in un party di Manhattan con il suo primo marito per uscirne con l’uomo che nonostante tutto mai più avrebbe lasciato. Due mondi che si incontravano e si scontravano, appunto, un matrimonio di guerra e pace. Ma anche un raro affresco di storia intellettuale del secolo tragico con cui stiamo facendo ancora i conti.

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