Un nome per la riscossa in Lombardia? Alessandro Manzoni

mercoledì, 16 gennaio 2013

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Sabato scorso ero al Teatro Dal Verme per sostenere, con tanti altri, la candidatura di Umberto Ambrosoli alla guida della Regione Lombardia. Sul palco l’ottima Lella Costa chiedeva a vari testimoni quale fosse per loro la parola-chiave della campagna elettorale: moralità, lavoro, Europa, speranza, partecipazione… e il timido avvocato Ambrosoli, tanto più giovane e diverso nel linguaggio rispetto ai veterani della politica Roberto Maroni e Gabriele Albertini con cui dovrà vedersela, ogni volta replicava dicendo la sua.
Un po’ come succede a scuola quando rischi di essere interrogato, mi sono chiesto in fretta e furia quale parola dire se la professoressa Lella Costa mi avesse puntato il dito addosso. Finché me n’è venuta in mente una che mi piaceva talmente da farmi venire la voglia di alzare la mano e lanciarmi come volontario, non fosse che appartengo ormai ai vecchi tromboni ripetenti e lì giustamente venivano interrogate le generazioni successive, ben più meritevoli.
La mia parola-chiave per la Lombardia è: Manzoni. Sì, non ridete, Alessandro Manzoni. Guardavo il contorno della regione accogliente in cui ho trascorso gran parte della mia vita, dove ho imparato ad amare l’Italia che mi ha accolto, e pensavo che l’ha afflitta negli anni scorsi una nuova pestilenza, certo diversa da quella raccontata nei “Promessi sposi”.
Una pestilenza morale della classe dirigente lombarda in cui hanno proliferato manipoli di bravi. Guardiani del privilegio che il don Rodrigo di turno ha addestrato nell’imporre il sopruso come normalità, proprio come i bravi che terrorizzavano don Abbondio per impedire il matrimonio fra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Reclami un diritto? Lo otterrai sotto forma di favore, meglio sei rivolgendoti a un Azzecca-garbugli, solo se ti adegui al predominio dell’appartenenza; cioè se risulti inserito nel giro giusto, si chiami Compagnia oppure Lega, oppure Cosca.
Sarebbe stato bello se a un certo punto, nella nostra storia, dopo i tumulti color arancione di Milano, fosse emersa pure la tormentata figura di un Innominato capace di pentimento e conversione, magari ispirato da un nuovo Cardinal Federigo. Pareva che ci andassimo vicino grazie ai ripensamenti pubblici del Celeste (personaggio che neanche la fantasia del Manzoni aveva partorito). Ma il Celeste non possedeva la grandezza ambivalente dell’Innominato e s’è rivelato piuttosto un modesto don Rodrigo, incapace di riconoscere il fallimento dei suoi bravi.
Ecco, la Lombardia ha bisogno di ritornare al suo Manzoni, nipote di quel Cesare Beccaria che ci ha consegnato la nozione dei diritti. Genio letterario e civile che coniugava la fede cristiana alla speranza dell’illuminismo. Capace di racchiudere l’idea risorgimentale di una nuova Italia nella visione di un’Europa moderna. Gran lombardo che amava la tradizione popolare dei semplici ma la descriveva con lingua nobile, rifuggendo la volgarità del provincialismo.
Scusate se non vi ho parlato di politica, della sfida per i seggi del Senato, delle giravolte compiute per dare continuità alla pestilenza del vecchio potere. Ma nel sorriso del neofita Ambrosoli, perfino nelle sue esitazioni di uomo che non avrebbe mai immaginato di trovarsi alla guida di una riscossa civica, mi è parso di riconoscere la manzoniana promessa di un Renzo Tramaglino.

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