Se il Papa rovescia gli equilibri della Chiesa

martedì, 12 febbraio 2013

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Un gesto inaudito, una grande uscita di scena che sancisce –con voluta consapevolezza- la crisi drammatica in cui versa la Chiesa di Roma.
Le dimissioni annunciate lunedì mattina da Benedetto XVI da un magistero petrino concepito niente meno che per ispirazione dello Spirito Santo, come Vicariato di Cristo nel mondo contemporaneo, rappresentano insieme un gesto di straordinaria umanità e di portata storica epocale. La fragilità di un uomo mite, innanzitutto, consapevole dei limiti delle sue forze superata la soglia degli 85 anni, fino al riconoscimento onesto di inadeguatezza. Ma poi c’è la storia, appunto, che si è abbattuta con forza disgregatrice non solo sulla sede curiale vaticana, indebolita dalla fine del potere temporale della Chiesa, ma in giro per il mondo ha minato il rapporto fra clero e popolo dei fedeli, fra dottrina e contemporaneità.
Ricordiamo ancora Joseph Ratzinger nel 2005, prima di diventare Papa, pregare per una Chiesa ridotta a scialuppa che imbarca acqua da tutte le parti. Seguirono lo scandalo vergognoso dei preti pedofili tanto a lungo protetti dalle gerarchie rivelando colpevole indifferenza per le loro vittime. E poi i miserabili intrighi di potere orditi all’interno e nei pressi della Segreteria di Stato, con relative fughe di notizie, controversie finanziarie, denigrazioni e manovre.
Benedetto XVI è apparso più volte sul punto di essere travolto, anche se mai la sua onorabilità personale ha potuto venire messa in dubbio. Silente sulle piaghe che emergevano a lui vicinissime, considerato talvolta in balia di porporati dalla dubbia fede viziati di spregiudicatezza mondana, violato perfino nell’intimità da uno stretto collaboratore domestico, il Papa evidenziava limiti, perdita di energia, che il servilismo degli adulatori faticava ormai a dissimulare. Per sua fortuna, però, mai nessuno ha potuto insinuare sue complicità nelle miserie curiali. E lo strappo di queste dimissioni ne confermano la statura elevata e la purezza di intenzioni.
Vengono clamorosamente alla luce, con l’abbandono di Benedetto XVI, anche i limiti dell’apparentemente grandioso pontificato che l’ha preceduto, quello di Giovanni Paolo II, il quale mascherava con la potenza della sua personalità carismatica una resistenza all’innovazione necessaria che oggi la Chiesa paga pesantemente.
Inutile girarci intorno: il conclave del prossimo marzo 2013, mezzo secolo dopo il Concilio Vaticano II, riproporrà alla Chiesa di Roma il medesimo bivio: aprirsi al mondo circostante con fiducia e amicizia, anche se ciò comporta il superamento di rigidità dogmatiche di cui ha misurato l’anacronismo; oppure rattrappirsi in una difesa della tradizione accumulando ritardo a ritardo, come ricordava nel settembre 2012, nella sua bellissima testimonianza postuma, il Cardinale Carlo Maria Martini: siamo rimasti indietro di 200 anni!
Papa Ratzinger ha resistito fino allo stremo delle forze su posizioni conservatrici, ha irrigidito una Chiesa fino a favorirne spaccature interne davvero poco commendevoli, ma infine ha compiuto una scelta di radicale innovazione, attraverso l’esempio personale di totale disinteresse. Non si può che restare ammirati di fronte alla sua onestà intellettuale e alla sua ispirazione, forse profetica. La definisco tale, profetica, immaginando che dopo Benedetto XVI nulla sarà come prima nella Chiesa cattolica universale. Dalla vicenda di Joseph Ratzinger uscirà senza dubbio ridimensionato il dogma del primato papale. E questo potrebbe rivelarsi provvidenziale nel dialogo con le altre componenti della cristianità che già da secoli rifiutano tale primato.

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