Giannino ed il super ego degli economisti

giovedì, 21 febbraio 2013

Il caso di Oscar Giannino, competente giornalista economico pizzicato nell’abbellire il suo curriculum accademico con titoli mai conseguiti, ha rivelato ancora una volta il clima di subalternità culturale nei confronti degli economisti che da qualche decennio si è imposto in Italia. Il professore di economia che proviene dalle università americane, dove ha studiato come Giavazzi o dove insegna come Alesina o Zingales, è diventato in questi anni il “faro” capace di dare la linea alla società adeguandosi all’unico pensiero possibile, invece che l’esperto competente in un singolo problema. Questo atteggiamento è subito al di là dell’essenza della stessa economia, una scienza sociale, ed una simile impostazione di subalternità si dimentica la lezione di uno dei più grandi pensatori liberali del secolo scorso, Karl Popper. Secondo l’epistemologo austriaco il metodo scientifico è fallibile per definizione, una lezione che non pare riscontrare grande consenso tra i nostri economisti.

Da molti anni  la debolezza culturale del campo progressista, ma un simile discorso vale per lo schieramento conservatore, ha favorito l’affermazione del primato degli economisti che appartengono alla scuola americana, anche se in realtà nel nostro paese l’eco del dibattito di quel paese arriva in forma piuttosto ridotta. La superiorità degli economisti, decisa motu proprio  ma condivisa anche da una buona fetta delle classi dirigenti, in particolare quelli della Bocconi, è così diventata una caratteristica del nostro dibattito pubblico, ai quali si è adeguata più la sinistra italiana che la destra, nonostante l’evidente contraddizione di chi riteneva che le politiche di Thatcher o Reagan potessero essere interpretati in chiave progressista. La fede nel mercato, a prescindere, e la superiorità assegnata alla sfera del privato, con un atteggiamento fideistico che cozza quantomeno con la realtà storica del nostro paese, sono stati i due assunti principali che si sono affermati grazie alle lezioni di Giavazzi, Alesina, Zingales e altri economisti dall’ego alquanto spiccato.

Fare per Fermare il Declino è sembrato sin dall’inizio il giusto esito per il protagonismo intellettuale degli economisti. Se una lista di biologi per i temi etici o di giuristi per le riforme costituzionali sarebbe apparsa del tutto paradossale, un movimento promosso da economisti per realizzare la salvifica rivoluzione liberale è invece sembrato una conseguenza logica di quanto dettato negli anni passati. La vicenda del falso master di Giannino, inseguito proprio nella Chicago culla intellettuale del reaganismo, è diventata così sintomatica di questo supino atteggiamento di subalternità al primato dell’economista subito anche da chi in realtà li avrebbe dovuti guidare nella tenzone elettorale per le sue, ad esempio, superiori qualità dialettiche. Lo stesso Giannino non è mai caduto in sfondoni  leggendari come le lodi di Giavazzi per il fallimento di Lehman Brothers, nel surreale elogio del prof. Boldrin alle riforme del governo Rajoy, o gli psichedelici appelli di Zingales al PD al fine di ispirarsi al Tea Party nella battaglia per la privatizzazione della sanità. Potersi però fregiare di un titolo accademico che lo accreditasse nel cerchio ristretto dei “veri economisti” ha indotto Giannino in un grave errore. Le sue dimissioni potrebbero regalare a Fare per Fermare il Declino una marginalità ancora più evidente rispetto alla scarsa rilevanza pubblica che queste idee hanno sempre avuto, in Italia, in Europa ed in realtà anche negli Stati Uniti.

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