L’uomo indebitato e il nuovo sistema feudale

giovedì, 4 aprile 2013

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Chi eserciterà il potere sulla nostra lacerata penisola, sempre meno essenziale negli equilibri mondiali, man mano che la ricchezza si sposta altrove? Davvero è pensabile che in futuro la nostra nazione periferica sia guidata da un iracondo professionista dello spettacolo, o torneremo piuttosto alla mediazione interessata dei podestà forestieri, come nei secoli lontani delle Signorie?
Consumato il mito dei tecnici. Divenuta senso comune l’impotenza della politica afflitta dai suoi tempi lunghi. Paralizzato il Parlamento in cui dovrebbe esprimersi la sovranità popolare. Ridimensionato perfino il Quirinale come ultima istanza capace di opporsi alla disgregazione. Ci s’interroga su quale principio d’autorità sia verosimile che regga nell’epoca storica del cittadino indebitato, l’ultima figura sociale generata dall’economia finanziaria che lo assoggetta comprimendone i consumi e anteponendo il mero bisogno ai diritti.
Qualcuno insiste a confidare nelle virtù punitive o salvifiche del dio mercato: sarà la Troika a commissariarci, se la classe politica italiana resterà imprigionata nel caos e se non bastasse l’iniezione di denaro della Bce di Mario Draghi. Ma anche questa rischia di essere solo l’ennesima forma di idolatria mascherata da razionalità. I mercati, finora indifferenti all’esito preoccupante delle nostre elezioni, paiono relegarci nella marginalità. Finché dura: siamo poco redditizi, la speculazione gira al largo, buona parte dei capitali stranieri sono già stati disinvestiti.
Succede così che la ricchezza ancora custodita nel nostro territorio, e i poteri che intorno ad essa si strutturano, stiano assumendo una conformazione irrigidita proprio come la politica. Il sistema italiano ricorda sempre meno un’economia di mercato alimentata dai redditi commerciali e d’impresa, cioè aperta. Il corso della storia non prevede la retromarcia, ma credo vada presa sul serio la diagnosi proposta dall’economista Luigino Bruni (“Le prime radici”, Il Margine) quando adombra il pericolo di una sorta di nuovo feudalesimo di ritorno:
“A distanza di qualche secolo stiamo tornando a una situazione molto, troppo simile a quella feudale, poiché il centro del sistema sta tornando a essere la rendita. E quando l’asse si sposta dal lavoro e dall’impresa alle rendite, l’arricchimento di alcuni non produce più vantaggi sociali per molti, perché sono molto ridotte, se non sono nulle, le ricadute di quella ‘ricchezza’ nei territori e nell’economia circostanti”. E ancora: “I nuovi ricchi non hanno più bisogno dei ‘poveri’ delle loro città, perché vivono in sub-città segregate, acquistano i beni in tutto il mondo, e pagano le tasse se e dove vogliono”.
Le conseguenze sociali di questa prevalenza della rendita in un’economia di mercato soffocata, sono già drammaticamente evidenti nella vita quotidiana dei molti che ne sono tagliati fuori. Meno chiare sono le ripercussioni sulla nostra democrazia di questo revival feudale.
Chi in Italia ha oggi la ventura di detenere il controllo di una nicchia di mercato o di territorio, ne trae un potere da rendita di posizione che si esercita anche nell’ambito delle pubbliche istituzioni. Il predominio a lungo esercitato dagli azionisti dell’Ilva sul territorio avvelenato di Taranto, se necessario corrompendo la classe politica locale; ma anche le forme paramafiose assunte dall’autonomismo siciliano nel corso degli anni; e ugualmente il rigido blocco nordista senza alternanza insediatosi al governo della Lombardia: sono esempi macroscopici, riprodotti innumerevoli volte su scala locale, di come la stessa politica approfitti dei blocchi di sistema per farsi rendita di posizione.
Nel feudalesimo di ritorno è naturale che politica ed economia tornino spesso a sovrapporsi, in deroga alle più elementari regole democratiche, fino a coincidere. Basti pensare ai potentati venutisi a determinare nei settori convenzionati: dalle infrastrutture ai trasporti alla sanità, fino al caso clamoroso delle frequenze televisive.
Rendite di posizione che hanno da tempo snaturato il mercato e che occupano più o meno vaste porzioni di territorio, a beneficio di veri e propri potentati.
Cosa c’entra tutto questo con il prolungarsi verso l’incognito della crisi, fino a prefigurare l’impossibilità di dare vita a un governo politico in grado di esercitare le sue funzioni?
A me sembra evidente. Una classe politica già per tre volte nominata dall’alto col Porcellum e poi rapidamente frantumatasi in fazioni locali o più di rado nazionali, non è risultata addomesticabile neanche dalla tecnofinanza globale, a sua volta in crisi per il fallimento dei suoi teoremi. Così la politica s’è fatta sempre più rancorosa non perché guidata da un eccesso di convinzioni morali, ma esattamente per il contrario: perché svuotata di contenuto morale e spirituale. Infeudata. E’ un docente di Harvard, il filosofo Michael J. Sandel, di cui Feltrinelli ha appena tradotto il saggio “Quello che i soldi non possono comprare”, a segnalarci come la logica di mercato nuoccia al nostro dibattito pubblico. Che il massimo della libertà sia stato fatto coincidere con la libertà di comprare tutto o quasi tutto, mercificando gran parte delle nostre relazioni, ha svuotato di argomentazione morale la vita pubblica. Il mercato si compiace di non giudicare i valori che non siano di natura materiale e chiede alla politica di fare altrettanto, fino a bandire l’idea di vita buona dal dibattito pubblico.
Così, se una politica sempre più rancorosa rinuncia alla passione morale espressa nei valori e nella spiritualità, perché dovremmo scandalizzarci di fronte al cittadino indebitato che torna servo della gleba?

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