Primo Levi e l'”ossessione” di Sergio Luzzatto

martedì, 16 aprile 2013

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Avrei validi motivi per tenermi il disagio e non scriverne: le confidenze sulla sua fatica di vivere che Primo Levi mi aveva concesso; la familiarità con il paese di Cerrina, in Monferrato, dove Fulvio Oppezzo viene ancora ricordato come giovane martire della Resistenza anziché vittima di giustizia sommaria, mitragliato di spalle insieme a Luciano Zabaldano, per opera di un capo della piccola banda partigiana in cui militava lo stesso Primo Levi, all’alba del 9 dicembre 1943 su un campo innevato del Col de Joux, sopra Saint-Vincent; la tessera dell’Anpi conferitami a Casale Monferrato dai superstiti di quella stagione, giustamente preoccupati che ancora si voglia infangare la loro scelta antifascista; e da ultimo mettiamoci il ritorno a Auschwitz-Birkenau, solo dieci giorni fa, per accompagnare i miei figli là dove Levi sopravvisse fortunosamente per undici terribili mesi mentre la maggioranza dei suoi compagni di sventura venivano eliminati.
Mi forzo a scrivere, invece, per interrogarmi sulla natura dell’”ossessione” di Sergio Luzzatto che quell’episodio drammatico lo scruta in più di trecento documentatissime pagine; traendone, lui storico autore dell’Einaudi, un volume edito da Mondadori perché la casa editrice torinese che fu di Primo Levi non se l’è sentita di pubblicarlo: “Partigia. Una storia della Resistenza”. Mi permetto di adoperare il termine “ossessione” sapendo che l’autore non si offenderà perché lo scrive due volte egli stesso per motivare la spinta a un’indagine che non ha molto da rivelare sul piano storico –le atrocità della Resistenza come guerra civile sono già dissodate- sollecitandoci invece a una discutibile revisione iconografica e sentimentale.
Dunque Luzzatto dichiara di provare “ossessione”, “curiosità”, “passione” per la Resistenza. Un’ossessione, precisa, acuitasi dacchè dilaga il “fenomeno Pansa”, cioè il successo dei libri che Giampaolo Pansa dedica al sangue dei vinti, da lui citati “come sintomo di una crisi dell’antifascismo”.
Non basta. Luzzatto dichiara, testuale, “un’altra mia ossessione” per la figura di Primo Levi. Quasi che un impulso morboso lo spingesse a misurare fino a dove giunga la sua capacità di “devozione civile” e di “venerazione letteraria” per il testimone, l’intellettuale rigoroso, lo scienziato che attraversato l’inferno non smette di ammonirci: scegli il raziocinio, diffida dalla visceralità anche nella scrittura.
Ecco allora Sergio Luzzatto afferrare un passaggio cruciale del “Sistema periodico”, cioè l’unico libro in cui Levi descrive la sua breve esperienza di partigiano antifascista nell’autunno 1943, prima di essere catturato con Luciana Nissim e Vanda Maestro, ebree come lui e insieme a lui deportate a Auschwitz. Sono dodici righe che descrivono lo stato d’animo del ventiquattrenne Levi e degli altri maldestri partigiani catturati il 13 dicembre 1943 nel corso di un rastrellamento, pochi giorni dopo la condanna a morte di Fulvio Oppezzo, 18 anni, e Luciano Zabaldano, che neppure li aveva ancora compiuti. Si trovano nel capitolo intitolato “Oro” e conviene riprodurle per intero:
“Fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù”.
Cosa pretendere di più, in sincerità e tormento? Primo Levi al tempo stesso riconosce qui, per ragioni di “nostra coscienza”, la condivisione di una sentenza –per indisciplina grave, minacce armate, forse anche un furto- e l’abiezione che ne derivò. Con un mitra Beretta furono abbattuti alle spalle, e poi sepolti, due ragazzi sbandati che le circostanze avevano reso incompatibili con le regole della guerra partigiana. Una tragedia ripetutasi più volte in quella come nelle altre guerre, l’atrocità del fuoco amico ricoperta quasi sempre dal velo della reticenza. Non dimentichiamo la fisionomia razionale che percorre l’intera testimonianza di Primo Levi, anche nei resoconti del lager, là dove neanche una singola figura di boia sterminatore s’è concesso di enfatizzare, scegliendo la chiave della compostezza anche di fronte all’inenarrabile.
Spiace che Luzzatto si avventuri in una contestualizzazione della presunta autocensura di Levi motivandola con la pubblicazione del “Sistema periodico” nell’anno 1975, cioè nel pieno delle celebrazioni del trentennale della Resistenza. Adopera qui anch’egli il termine dispregiativo “vulgata resistenziale” che tanto gratifica gli iconoclasti (già me li vedo intenti finalmente a demitizzare il grande scrittore della Shoah). Ipotizza cioè che Levi abbia pagato “pedaggio” –che parola!- perché all’epoca non era consentito presentare la Resistenza come fenomeno in chiaroscuro, dovendosi separare nettamente i torti dalle ragioni. Così, lungo tutto il corso della sua ricerca di microstoria –dalla morte assurda di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano alle contraddizioni interne al movimento partigiano fra Casale Monferrato e la Val d’Aosta; dall’indulgenza di cui godranno nel dopoguerra i fascisti artefici del rastrellamento fatale, all’impegno di testimonianza in cui si cimenta Levi non appena tornato in Italia nell’ottobre 1945 (Vanda Maestro, catturata insieme a lui, morirà a Auschwitz)- sempre è sul concetto di ambiguità che indugia Luzzatto.
Credo possa ritrovarsi qui la radice delle due “ossessioni” dell’autore per la Resistenza e per Primo Levi, quasi che di fronte a eventi e personalità cui deve alcuni punti fermi della sua formazione culturale, gli risultassero troppo stretti i panni dello storico per addentrarsi nei misteri della natura umana. E’ come se Luzzatto avvertisse il bisogno di rivolgere contro Primo Levi la teoria della “zona grigia”, magistralmente teorizzata ne “I sommersi e i salvati” da quest’ultimo, riducendola a logora metafora sulle infinite sfumature tra il bianco e il nero. E’ certo avvincente il suo racconto dei partigiani e dei loro persecutori tra le valli alpine e la pianura, ma non aggiungerebbe nulla di nuovo sul piano della ricostruzione storica e del giudizio morale, non sfiorasse in veste di comprimario marginale uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento.
E’ sulla personalità tormentata di Primo Levi, alla fine, non accontentandosi della sua rigorosa testimonianza, che l’autore si concentra. Per dimostrare cosa? Luzzatto rintraccia l’eco tragico di quell’alba valdostana in alcuni cenni iniziali di “Se questo è un uomo”; e poi nell’amarezza della poesia dedicata da Levi ai Partigia, il termine gergale con cui in Piemonte venivano chiamati i combattenti antifascisti. Diretta è, infine, l’analogia fra l’episodio di “giustizia sovietica” (parole di Luzzatto) perpetrato il 9 dicembre 1943 sul Col de Joux e l’eliminazione del giovane ribelle Fedja ad opera della banda partigiana ebraica di Ulybin, così come Levi l’ha narrata nel romanzo “Se non ora, quando?”.
Quali conseguenze dovremmo noi osare trarne, vincendo il disagio e abusando dell’indiscrezione, sulle scelte di vita (o perfino di morte) di Primo Levi? Stiamo parlando di un intellettuale sempre misurato nei suoi giudizi storici, a costo di tenersi dentro il suo tormento, proprio perché sentiva il dovere di restituire un giusto senso delle proporzioni agli avvenimenti immani di cui era stato testimone. Quel trauma vissuto prima della deportazione, trentadue anni dopo inciso sinteticamente ma senza autoindulgenza nel “Sistema periodico”, Levi aveva buone ragioni per ritenere non dovesse schiacciare la prospettiva della sua opera complessiva. Non possono essere ingrandite, quelle dodici righe del capitolo “Oro”, pur con il dramma che custodiscono, fino a oscurare la scelta partigiana così come Levi la descrive nella pagina precedente, con la medesima, magistrale asciuttezza: “Nel giro di poche settimane (dopo lo sbarco alleato in Nord Africa e la vittoria russa a Stalingrado) ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna”.
Così anche Primo Levi è divenuto per noi, e resterà, un maestro.

I commenti sono chiusi.

I commenti di questo blog sono sotto monitoraggio delle Autorità. Ti preghiamo di mantenere i toni della discussione entro i limiti di buona educazione e netiquette in essere come regole del blog. Inoltre usa con moderazione i seguenti comandi di formattazione testo.