Compromesso storico, quando la sinistra si convince di non poter governare

martedì, 30 aprile 2013

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Quarant’anni fa –molti di voi non erano ancora nati- fece scalpore una serie di articoli pubblicati sulla rivista di partito “Rinascita” dal segretario comunista Enrico Berlinguer. Spiegavano ai militanti una spiacevole convinzione del pessimista Berlinguer, difficile da digerire. In pratica: cari compagni, levatevi dalla testa l’idea che noi comunisti possiamo vincere le elezioni e governare l’Italia da soli. Siamo un paese posto al centro di tensioni internazionali, nel quale agiscono forze reazionarie pericolose, e dunque ci tocca perseguire la collaborazione tra le forze cattoliche, socialiste e comuniste se vogliamo tutelare gli interessi popolari. Fu coniata allora, nel 1973, la (s)fortunatissima formula del “compromesso storico”. Che avrebbe trovato applicazione nei governi di unità nazionale guidati da Andreotti, con l’astensione benevola o addirittura il voto di fiducia del Partito comunista, fra il 1976 e il 1979. Un’esperienza che di fatto si chiuse drammaticamente allorquando il principale interlocutore democristiano di Berlinguer, cioè Aldo Moro, fu sequestrato e assassinato dalle Brigate Rosse.
Non mi addentrerò nell’infinita controversia su meriti e demeriti del “compromesso storico” di antica memoria. Mi limito a constatare che ormai sono quarant’anni che all’interno della sinistra italiana si è radicata la convinzione di non potercela fare, da sola a guidare questo paese. Paura di vincere, dice qualcuno. O se preferite maledizione dell’ultimo miglio, per cui incespichi quando ormai sei in prossimità del traguardo, com’è successo a Bersani nel 2013.
Fatto sta che Enrico Berlinguer è riuscito in un’impresa davvero singolare: divenire il leader di gran lunga più amato e rimpianto della sinistra italiana, pur essendo un perdente. Lui, fautore di un’intransigenza morale per cui gli avversari l’avrebbero accusato di moralismo e di sprezzante senso di superiorità (la famosa “diversità comunista”), finì per rinchiudere il suo partito in un destino di minoranza, togliendogli pure l’illusione che un giorno ce l’avrebbe potuta fare.
Per uno scherzo del destino tocca a Giorgio Napolitano, all’epoca fra i dirigenti comunisti più critici della linea Berlinguer, riproporre l’idea del “compromesso storico” all’Italia di oggi. E’ difatti Giorgio II il propugnatore della spiacevole verità, dettata dalle nude cifre dei risultati elettorali, secondo cui Berlusconi resta imprescindibile se vuoi governare l’Italia. Certo la somma fra Pd, Sel e MoVimento 5 Stelle sarebbe maggioritaria, e relegherebbe Berlusconi nell’angolo, non fosse solo un pio desiderio. I nobili fautori del compromesso storico non la prendono nemmeno in considerazione, mossi come sono dalla ferrea convinzione che l’alleanza va ricercata a destra, ché altrimenti il Paese non lo si governa.
Lo schema viene riproposto ora –nonostante i puristi si scandalizzino di trovare Berlusconi nel ruolo che fu di Moro- col varo del governo Letta-Letta. Una famiglia che fra nipote e zio ha coltivato una familiarità con le stanze di Palazzo Chigi senza pari, nel ventennio trascorso. Da sempre protesa al compromesso, al garbo diplomatico, all’intesa trasversale. Verrebbe quindi voglia di plaudire a questa larga intesa presentata da Napolitano e dal Pdl come approdo naturale in nome dell’interesse nazionale, non fosse che la versione contemporanea del compromesso storico ha natura ben più prosaica. Convenienze, attese, immunità… viviamo già nell’attesa che Berlusconi e Renzi, i due opposti beneficiari della tregua, decidano quando gli convenga staccare la spina. Altro che governassimo, altro che compromesso storico.

I commenti sono chiusi.

I commenti di questo blog sono sotto monitoraggio delle Autorità. Ti preghiamo di mantenere i toni della discussione entro i limiti di buona educazione e netiquette in essere come regole del blog. Inoltre usa con moderazione i seguenti comandi di formattazione testo.