Banditi a Milano: la nuova metropoli criminale

venerdì, 24 maggio 2013

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Centauri muscolosi nerovestiti di non so quale polizia privata ci squadrano in cagnesco lungo via Montenapoleone, appollaiati sulle loro moto di grossa cilindrata. Scrutano i passanti fra cui potrebbe celarsi la Milano criminale che va all’assalto della ricchezza impugnando l’arma bianca al posto delle pistole. Comparsa d’improvviso fra le periferie popolari e le vetrine del benessere, terzo incomodo fra le due Milano che il sindaco Pisapia vorrebbe ricucire come città solidale, la nuova Milano criminale spacca e uccide con asce, spranghe, mazze, picconi, punteruoli, molotov. Rivelando una furia misteriosa d’impronta medievale che non ha bisogno della polvere da sparo per inseguire il flusso del denaro, anche perché ormai gode di un radicamento diffuso nel territorio urbano. Certo i banditi sono altra cosa dalle mafie che si sono intrufolate nella borghesia degli affari grazie al riciclaggio; e la follia individuale resta la punta estrema della sofferenza urbana che già ha spinto più di un milanese su dieci a fare uso di psicofarmaci.
Sarebbe una forzatura mettere nello stesso mucchio i rapinatori che martedì hanno saccheggiato la boutique d’orologi Franck Muller in via della Spiga e lo spiantato Ivan Gallo che a marzo ha spaccato la testa dell’orefice Giovanni Veronesi in via dell’Orso, dietro alla Scala. Poi c’è la barbarie insensata del piccone tre volte omicida brandito dal ghanese Mada Kabobo vagabondo a Niguarda; e prima ancora ricordiamo i malavitosi del quartiere Antonini che massacrarono di botte il tassista Luca Massari, colpevole di aver investito il cane di una loro congiunta; mentre al pugile Oleg Fedchenko erano bastati pochi pugni per togliere la vita, in viale Abruzzi, alla colf filippina Emlou Arvesu.
Arma bianca, mani nude: sete di guadagno, rancore, dominio territoriale, malattia mentale. Sono spiegazioni insufficienti perché non fanno i conti con una Milano che nel precipitare della crisi ha subito una metamorfosi del suo tessuto metropolitano, concedendo uno spazio inusitato alla nuova presenza inattesa dell’economia illegale. C’è una logica in questa follia che alimenta la “cattiveria” dei milanesi, per dirla con le parole del sindaco.
Se prima i rapporti sulla città evidenziavano la piaga di un’assoluta ignoranza reciproca fra i suoi quartieri –da una parte la povertà invisibile relegata nella solitudine delle periferie, dall’altra la finanza, la moda e le professioni blindate nell’opulenza delle zone residenziali- ora facciamo i conti con il corpo estraneo della terza Milano. Mi basta scendere sotto casa per non riconoscerla più, una Milano spaccata in tre dalla crisi. In viale Abruzzi, quartiere di mezzo, né centro né periferia, siamo abituati da sempre alle povere ragazzine da marciapiede che di notte, quando chiudono il bar Basso e il cinema Plinius, vengono soppiantate da trans assai nerboruti e seminudi. Avevamo accolto con simpatia l’inaugurazione dell’Hammam delle Rose, bagno turco per signore. Ma ci eravamo chiesti, in seguito, come mai fiorissero d’un colpo a decine ben altri centri estetici orientali con massaggiatrici dall’aria peccaminosa, e poi gli empori di merci d’importazione low-price altrettanto loschi. Fino a che quest’anno viale Abruzzi s’è disseminato di locali per il gioco d’azzardo (non bastavano i malati di ludopatia ospiti fissi nelle tabaccherie) aperti tutta la notte col permesso di fumare. Mentre di fianco comparivano inspiegabilmente numerosi locali per la vendita delle sigarette elettroniche, o ancora bar con i tavolini bene appostati.
Tra i residenti che non ci mettono piede sussurriamo per induzione, senza prove, che è arrivata la ‘ndrangheta o chissà quale altra mafia esotica, non spiegandoci altrimenti questo ricambio di negozi sempre vuoti e quasi sempre disadorni, provvisori.
Il criminologo Adolfo Ceretti, che ha appena dato alle stampe con Roberto Cornelli il saggio “Oltre la paura” (Feltrinelli), conferma la sostanza di queste impressioni: “Ci siamo illusi che la presenza della criminalità organizzata a Milano fosse di natura liquida, limitata al riciclaggio del denaro sporco e allo spaccio di droga. Invece sta penetrando nella rete commerciale e più ancora nel profondo delle relazioni personali”. Anche il cittadino milanese qualsiasi incontra per strada e nei negozi l’universo parallelo delle mafie, italiane o con gli occhi a mandorla. Le persone vulnerabili possono divenirne preda nella vita quotidiana. La favola di una ‘ndrangheta asserragliata solo nei comuni dell’hinterland non regge più. Occupa le strade di Milano, e si rivela falso anche il luogo comune leghista che indicava nei quartieri a forte immigrazione come Chinatown o via Padova le roccaforti di un radicamento mafioso che ha invece tutto l’interesse a spalmarsi ovunque la crisi abbia messo in ginocchio e svuotato i vecchi esercizi commerciali.
Torno nel quadrilatero della moda funestato dal commando dei rapinatori col passamontagna nero e armati di spranga. Le moto della polizia presidiano la scuola elementare all’angolo fra via della Spiga e via Borgospesso, di fianco alle mamme che aspettano l’uscita degli alunni. Le maniglie a serpente di Roberto Cavalli luccicano al sole di primavera. La rom inginocchiata continua a chiedere l’elemosina mentre l’ambulante nordafricano tenta invano di piazzare i suoi libri improbabili. La gioielleria Tiffany, proprio lì di fianco alle tende abbassate col simbolo violato di Franck Muller, ha rinforzato la vigilanza. L’elenco delle sue filiali è una mappa della ridislocazione della ricchezza planetaria: Geneve, Aspen, Hong Kong, Milan, Moscow, Nagayc, New York, Osaka, Tokyo, Yerevan. Lì accanto, il flusso di cassa nei monumentali negozi degli stilisti continua a registrare la variazione che li ha indotti a reclutare venditrici di madre lingua russa e cinese: tanti acquisti d’importo elevato non passano per la strisciata della carta di credito; più spesso il compratore estrae un rotolo di banconote di grosso taglio e si mette a contare per migliaia di euro. Siamo sicuri che sia tutto denaro proveniente dall’estero, o non avrà invece a che fare anche con l’inesplorata terza Milano criminale? I portavoce del lusso milanese rivendicano legittimamente il diritto a essere presidiati, si vivono come un’enclave patrimoniale meritevole di speciale attenzione, mal sopportano un sindaco che punta alla giustizia sociale quasi che ciò l’avesse distratto dalla cura per la sicurezza pubblica.
Spiega il criminologo Ceretti che questa ondata di violenza urbana, per fortuna, resta ben distinta dagli episodi di conflitto sociale, tutto sommato sporadici se rapportati alla povertà dilagante. I centri giovanili come lo Zam (Zona autonoma Milano) di via Olgiati, che mercoledì ha assediato Palazzo Marino, cercano magari lo scontro di piazza, manifestano delusione nei confronti di un sindaco come Pisapia che sentivano vicino e oggi invece difende la legalità, ma la guerriglia urbana degli Anni Settanta, col suo arsenale di spranghe, chiavi inglesi e molotov, non sembra una minaccia alle porte.
La sofferenza urbana piuttosto che nel conflitto sociale si manifesta sotto forma di nevrosi e depressione, se è vero che si moltiplicano le richieste di cura mentale, tanto che i sindacati e le associazioni degli imprenditori allestiscono presidi di supporto psicologico per chi va in crisi da abbandono. Mentre i centri di accoglienza e le carceri devono fronteggiare una vera e propria emergenza psichiatrica.
Peccato che l’assessore ai Servizi Sociali, Pierfrancesco Majorino, sia costretto dai tagli di bilancio a bloccare i ricoveri gratuiti di anziani nelle case di riposo e i sussidi al reddito per le famiglie in difficoltà. Una situazione che produce anche schegge impazzite, queste sì pericolose per la pubblica sicurezza. Majorino sta pensando di chiedere aiuto ai privati per integrare il fabbisogno di protezione sociale: un inedito appello emergenziale alla borghesia milanese perché la filantropia non si disperda nei mille rivoli dell’iniziativa privata, quando anche le principali istituzioni d’accoglienza, come la Casa della Carità, si ritrovano con l’acqua alla gola.
Il movimento arancione che aveva trascinato nel 2011 Giuliano Pisapia a sconfiggere la destra, cambiando di segno l’amministrazione comunale, mise a tacere una campagna forsennata contro la sinistra fautrice di “Zingaropoli” e di una “città a misura di gay”. Oggi la destra ci riprova, cavalcando la denuncia della criminalità che spadroneggia. Poco importa il netto calo del numero di omicidi, il cui tasso è il più basso d’Europa. I reati contro il patrimonio tornano a intasare il Tribunale, magari solo per il furto di cinque buste di prosciutto al supermercato. E quando a essere strappati dalle vetrine sono orologi di pregio per il valor di un milione di euro, è anche l’élite cittadina a rilanciare l’allarme. Pisapia corre ai ripari ammettendo l’impiego dell’esercito, ma solo nei presidi fissi. Spera di rintuzzare la demagogia delle soluzioni immaginarie, dalle ronde alla caccia all’immigrato. Ma intanto nei salotti del centro la conversazione a cena si distoglie dagli argomenti più in voga –la tormentata nomina dei vertici della Scala, la maxi-multa che rischia di mettere in ginocchio la società degli aeroporti, il pericolo di crack alla Rcs- perché un brivido corre lungo la schiena delle signore abituées dello shopping.
Non è un capriccio. Se la violenza criminale torna a serpeggiare fra le periferie e il centro, per quanto mossa dall’avidità di ricchezza anziché dall’ideologia politica, a Milano si rivivono gli incubi di un passato funesto. Il guaio è che stavolta non basterà smantellare qualche cellula estremista: c’è cresciuta in casa un’economia illegale ramificata, assai più difficile da bonificare. Troppo a lungo la classe dirigente meneghina, per malinteso orgoglio o per convenienza, ha fatto finta di non accorgersene.

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