“L’intrepido” disturba perché racconta la rassegnazione dei precari

giovedì, 5 settembre 2013

Leggo recensioni perplesse de “L’intrepido”, il film di Gianni Amelio con Antonio Albanese, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Ho la netta impressione che il fastidio non dipenda dalla maggiore o minore qualità del film, ma dalla domanda imbarazzante che esso solleva. Un lavoratore precario che accetta tutto, ma proprio tutto. Cambia continuamente lavoro facendo il tappabuchi. Lo fregano su paga, normative, orari, fatica. Sopporta. Non si ribella mai. Dunque non c’è trama…
Ma proprio questo è il punto. L’Italia è un paese con tassi di disoccupazione elevatissimi, in cui i rapporti di lavoro precari hanno superato fra i nuovi assunti quelli regolari. I giovani che non trovano lavoro sono il 40%. Ce n’è due milioni abbondanti che nè studiano nè lavorano. Ebbene, con tutto questo, com’è che non scoppia una rivoluzione?
La risposta alla mancata esplosione di una situazione esplosiva probabilmente sta principalmente nella demografia: i giovani -per loro natura più creativi, propensi al rischio, sognatori, rivoluzionari- in Italia sono ormai una minoranza numerica piuttosto ridotta. Le ultime grandi rivolte in Italia scoppiarono tra la fine degli anni Sessanta e il ’77, avendo per protagonista la generazione dei baby-boomers.
Il lavoratore tuttofare Antonio Pane (alias Albanese) protagonista de “L’intrepido” è per l’appunto un ritratto di questa rassegnazione italiana. Come tale ci disturba, raccontandoci una condizione esistenziale che non dà adito alla speranza.

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