Il mio viaggio in Val di Susa fra Tav, movimento popolare e “sabotatori”

venerdì, 20 settembre 2013

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.

Scena prima, al cantiere Tav di Chiomonte
Lunedì sarà il gran giorno. La bianca, enorme talpa d’acciaio lunga 240 metri penetrerà la montagna che finora minatori e carpentieri hanno scavato “a mano”, senza mai ricorrere alla dinamite perché in Val di Susa un deposito di esplosivo attirerebbe personaggi sbagliati. E ce ne sono già abbastanza.
Una volta posizionato nella galleria, fra meno di un mese il cilindro gigante della Robbins comincerà a ruotare i suoi taglienti, divorando la roccia a una velocità variabile fra i 7 e i 20 metri al giorno. Per gli uni è l’orgasmo della tecnologia più avanzata del mondo, e pazienza se a proteggerla non basta il filo spinato: ci vogliono l’esercito e la polizia. Per gli altri è lo stupro di una montagna che ne ha già subiti troppi. Due visioni alternative dell’economia e del rapporto uomo-natura si fronteggiano in cagnesco, fino alla militarizzazione del territorio e al sabotaggio eversivo. Così, un presagio cupo ha preso a serpeggiare per la valle: che adesso ci scappi il morto, perchè questi meravigliosi panorami alpini, come denuncia il Procuratore torinese Gian Carlo Caselli, rischiano di trasformarsi nell’epicentro dell’antagonismo di tutto il continente europeo. E chissà, forse ai sostenitori della Grande Opera potrebbe far comodo ridimensionare a controparte irresponsabile quello che è stato indubbiamente un movimento di popolo No Tav, talmente vasto da avere regalato al MoVimento 5 Stelle percentuali di voto superiori al 40% perfino in comuni moderati come Susa.
Al cantiere di Chiomonte provano la soddisfazione del fatto compiuto: nessuno la fermerà più, la talpa, immenso trapano teleguidato da una cabina di comando degna di un’astronave. Nel giro di due anni sarà completato il tunnel geo-gnostico che poi dovrebbe diventare una galleria d’emergenza perpendicolare al colosso: il tunnel profondo di 12 chilometri in territorio italiano, sui 54 km totali necessari alla Torino-Lione per correre sotto le Alpi.
Manteniamo il condizionale, dovrebbe, perché nonostante la sicurezza manifestata dal capo-progetto, Mario Virano, c’è chi immagina la Tav possa finire come il Ponte sullo Stretto di Messina. Cioè che tra qualche annoi a Roma il governo accampi ragioni di forza maggiore –la crisi si prolunga, i soldi non ci sono- per dire che purtroppo non se ne fa più nulla. “Impensabile –replica Virano- siamo confermati fra le priorità dell’Unione Europea. E la linea ferroviaria attuale andrà comunque a morire, se non la rifacciamo con standard adeguati”.
Virano oggi si compiace: i No Tav non sono riusciti a replicare al cantiere di Chiomonte la spallata riuscita nel 2005 a Venaus, dove le recinzioni furono travolte da una grande manifestazione popolare e i lavori non ebbero mai inizio. Ma resta da chiedersi, mentre la talpa scava, se potrà andare liscia pure a Susa quando, fra non molto, verranno espropriate le aree su cui deve sorgere la stazione dell’Alta Velocità.
Per garantire i lavori qui si sono dovuti cintare 7 ettari di vigneto in cui si produce l’ottimo rosso Avanà: le forze dell’ordine filtreranno chiunque partecipi anche alla prossima vendemmia. Tanto basta perché fra i No Tav prenda piede la tentazione di radicalizzare le forme di lotta. La parola che fa paura, perché ciascuno la intende a modo suo, è: sabotaggio.

Scena seconda, in un appartamento di Bussoleno.
Beviamo un tè a casa di Valerio Colombaroli a Bussoleno con un gruppo di attempati militanti, quelli che ventidue anni fa diedero vita al movimento No Tav, ne hanno allargato le prospettive culturali fino a farne una visione del mondo alternativa e, chissà, forse ora se lo vedono sfuggire di mano. Nel tinello si aggira il cane lupo involontario protagonista di un allarme, lassù alla rete di Chiomonte, dove Valerio lo portava a passeggio. La povera bestia era saltata nel cantiere per far festa a una persona che conosceva bene, il signor Benente, cognato di Valerio e titolare della Geomont, incaricato dei primi sondaggi del terreno. Gran confusione, chiarito l’equivoco. Fatto sta che mentre noi discutiamo le ragioni di un movimento alle prese con gli ultimi episodi di intimidazione violenta, giù al piano di sotto il fratello della moglie di Valerio conta i danni subiti: la distruzione notturna di due compressori e una trivella. Lacerazione familiare, se ne contano molte, in valle. Benente subisce accuse di tradimento per il fatto di lavorare alla Tav, il clima si è fatto pesante.
Chiara Sasso, Claudio Giorlo e gli altri “saggi” che hanno costruito il consenso popolare No Tav, definiscono “esagerato” l’allarme del giudice Caselli. Guardano con sospetto alla vicenda del costruttore Fernando Lazzaro, quello che denunciò il clima intimidatorio in televisione e la notte stessa subì un attentato. Ricordano che Lazzaro ha già subito una condanna per turbativa d’asta, sostengono che il clima è intorbidito anche da portatori di interessi sospetti. Non aiuta il ricordo degli episodi di quindici anni fa, falsi attentati No Tav dietro cui la magistratura riconobbe l’azione di personaggi legati ai servizi e alle mafie. Non dimenticano che Bardonecchia, qui vicino, è stato il primo comune del Nord sciolto per ‘ndrangheta.
Condannare i violenti, oppure limitarsi a denunciare la provocazione come “opera di infiltrati”? Eterno dilemma dei movimenti alle prese con la degenerazione delle forme di lotta. I vecchi No Tav rivendicano di ispirarsi alla nonviolenza di Alexander Langer, ma anche loro declinano quella parola minacciosa, sabotaggio, di cui lo scrittore Erri De Luca s’è vantato solo per il fatto di aver partecipato a un blocco autostradale.
“Sabotaggi popolari notturni ce ne sono stati”, spiega Chiara Sasso. “Vi parteciparono una quarantina di persone, tutti dai 50 anni in su. Fu messa fuori uso una torre-faro, tagliate delle reti. Nessun attacco alle persone. Poi si sono innescati episodi più pesanti, come il compressore bruciato dentro al cantiere. Francamente nessuno di noi, e neanche dei centri sociali torinesi, riesce a capire chi possa essere stato”.
Il sindaco di Avetrana, Angelo Patrizio, e il presidente della Comunità montana, Sandro Plano, sono No Tav moderati, che non esitano a dissociarsi dai violenti, ma aggiungono: “Se qualche ragazzo in vena di teppismo si lascia andare a comportamenti ingiustificabili, potrà magari far comodo a chi addita perfino noi come pericolosi estremisti. Ma il primo blocco da rimuovere è la sordità opposta alle ragioni dei valligiani. Perché abbiamo a che fare con personaggi come Stefano Esposito, deputato del Pd, cui pare redditizio trasformarsi in estremisti ideologi dell’Alta Velocità”.
La novità politica è che in Parlamento siede ormai una rappresentanza numerosa di oppositori dell’Alta Velocità. La vedremo in azione fra pochi mesi, quando dovrà essere ratificato il trattato italo-francese senza cui non può costituirsi la società che deve (dovrebbe) avviare i lavori del lungo tunnel-base. Solo allora il braccio di ferro esercitatosi finora intorno a un’opera secondaria come il tunnel geo-gnostico, potrebbe dirsi concluso. Per questo i No Tav guardano con fiducia al loro senatore grillino di Bussoleno, Marco Scibona, che il febbraio scorso ha strappato il seggio a Angelo Napoli del Pdl. Il passaggio attuale è delicatissimo, giacché prima di allora la leadership del movimento potrebbe essere spintonata di lato dagli antagonisti che agiscono nell’ombra. E l’accusa di terrorismo, in un drammatico revival delle dinamiche degli anni di piombo, precipiterebbe su tutti loro. Esacerbato da questa manovra, di cui attribuisce la responsabilità a una cricca di politici, imprenditori chiacchierati e mass media, finora il portavoce più noto dei No Tav, l’ex bancario Alberto Perino, lancia proclami di combattimento ma non accenna dissociazioni nette. Col rischio che a intimidirsi sia la popolazione della Val di Susa: “Se io fossi un Pro Tav, questi terroristi li pagherei”, dice il sociologo Bruno Manghi, che resta scettico sulla realizzabilità dell’opera. “Il risultato è che già oggi nel conflitto sono coinvolte in tutto 500 persone, portate alla ribalta dai giornali e dalla televisione. Passa in secondo piano il sottobosco mafioso affaristico che pure c’è, e che in passato aveva praticato l’incendio delle macchine”.

Scena terza, all’Hotel Napoléon di Susa
La serata fresca preannuncia l’autunno e, per fortuna, sembra tranquilla. I poliziotti fuori turno hanno dismesso la divisa e passeggiano in tuta fra il ponte sulla Dora Riparia e l’Hotel Napoléon che li ospita. Ma restano guardinghi perché nel luglio scorso a più riprese i campeggiatori No Tav convenuti da tutta Europa si dilettavano a radunarsi di fronte all’entrata dell’albergo, nel cuore della notte, producendo frastuono per impedire loro di dormire.
“Ci ha fatto male riconoscere fra gli urlatori anche dei nostri paesani”, racconta il signor Vanara, titolare da più di quarant’anni dell’albergo. “Noi possiamo dire solo meno male che c’è la Tav, perché le fabbriche hanno chiuso e il lavoro altrimenti non ci sarebbe. Ma nel paese si è prodotta una lacerazione dolorosa da cui non so se ci riprenderemo”. Gli altri, quelli del movimento, ricordano che apparteneva alla famiglia Vanara un parroco coraggioso partigiano, detto Don Dinamite, e accusano i valligiani che lavorano per il cantiere di intelligenza col nemico. Risuona la stupida accusa di tradimento. La sindaca di Susa è schierata a favore della Tav, ma il quartiere che dovrà subire degli espropri per allestire il terrapieno su cui sorgerà la grande stazione intermedia della Torino-Lione, ha molte bandiere con il treno sbarrato esposte sui balconi.
Riaffiorano vecchie divisioni sul territorio che rischia la militarizzazione già vissute altrove in Italia, dall’Alto Adige alla Barbagia all’Aspromonte. “Bastano poche persone a rovinare tutto”, si preoccupa Bruno Manghi. “Il barista che rifiuta il caffè al carabiniere. L’imprenditore o il sindaco Pro Tav intimiditi come capitava ai capireparto della Magneti Marelli negli anni Settanta. E, dall’altra parte, le buone ragioni della popolazione schiacciate dall’avanguardismo estremista”.
La Val di Susa è lunga. E’ già stata traforata da grandi opere che hanno avvantaggiato solo delle minoranze, creando disagi pesanti di cui ora si annuncia il bis. In alto ci sono i paesi benestanti del turismo invernale –solo al Sestrière hanno trovato occupazione 200 albanesi- che si disinteressano del tunnel. Ma discendendo da Susa, a Bussoleno, a Avignana, dove la presenza operaia e la Resistenza hanno impresso un forte segno rosso nelle comunità locali, il fondovalle si rivela per quello che è: un’estensione periferica della grande Torino.
Così avverto la strana impressione di una lotta politica, simulacro della vecchia lotta di classe, che da Torino si ritira e si contrae nella retrovia della valle. Con i suoi detriti ideologici, i suoi antichi conti da regolare. C’è chi ricorda la filiera di terroristi di Prima Linea cresciuti a Bussoleno; e chi denuncia improbabili complicità fra i No Tav e la società autostradale Sitaf, che dalla ferrovia veloce sarebbe danneggiata. La dietrologia impazza. Anche gli apparati repressivi rivivono la stagione in cui dalla Val di Susa transitavano i fuggiaschi che volevano espatriare in Francia. Un sottobosco che ha alimentato settori di imprenditoria malavitosa ingolositi dal nuovo business.
“Lei sbaglia se ci riporta agli anni della sua gioventù”, replica Claudio Giorlo. “Qui in oltre vent’anni di lotta è cresciuto davvero un fenomeno nuovo, la cultura dell’economia sostenibile, la democrazia partecipata, la critica feconda del sistema giunto al collasso”.
Sarà. Purchè la valle da cui transitarono le armate di Annibale, Carlo Magno e Napoleone, scavata ora da una talpa d’acciaio che non ha nulla a che fare con quella di Karl Marx, sappia liberarsi dall’invasione straniera dei violenti in cerca di rivoluzione.

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