Una lettera di Cuperlo su sinistra, affari e questione morale

sabato, 16 novembre 2013

Sull'”Unità” di oggi Gianni Cuperlo risponde alla mia lettera che trovate qui sotto.

Caro Gad,
con qualche ritardo, e me ne scuso, ma voglio rispondere alla tua richiesta di una parola chiara attorno al connubio tra sinistra e affari e a un’etica pubblica da ripensare come perno attorno a cui fare ruotare tutto. Lo faccio adesso, forse nel momento meno adatto se uno fissa lo sguardo su congressi di circolo all’improvviso scalabili, tesseramenti rigonfi, adesioni esplosive e pilotate. Certo, c’è una larga maggioranza di iscritti che continuano a credere in una buona pratica e sono persone perbene. Però il punto è gravissimo e il mio appello a fermare la deriva voleva muoversi in quella direzione: spiegare che logiche simili producono l’unico effetto di avvelenare il progetto. Naturalmente serve chiedersi come e perché si è giunti a tanto. E qui si aprirebbe una riflessione su cosa siano l’adesione alla politica e la selezione delle classi dirigenti alla fine di un ventennio che ha visto entrambi i momenti viziati da un potere leaderistico e notabilare, mentre il senso di comunità anche per noi si offuscava. Abbiamo finito così col definire normale, anzi obbligata, la coincidenza quasi assoluta tra i soggetti politici e le istituzioni in un trionfo del pragmatismo che ha sacrificato l’impianto culturale di forze sempre più simili a comitati elettorali e orfane via via di un qualche ancoraggio tra il cielo dei profeti e la terra dei gazebo. In quel contesto la corsa sfrenata verso prebende pubbliche, l’ironia verso apparati oramai estinti ma buoni a rinverdire polemiche contro burocrazie ottuse, sino al rito e mito di primarie come palingenesi del ricambio senza tener conto di una nuova rappresentazione patrimoniale nell’accesso alle cariche, ecco tutto questo ha infragilito la struttura e reso meno sensata la scelta stessa dell’iscrizione – di una tesserina di plastica intestata – se non come viatico per una possibile filiera correntizia. La stessa vicenda dei centouno voti mancati a Romano Prodi si può rinchiudere nella manciata di ore e giornate dell’evento, oppure collocare, come forse converrebbe, nella genesi che quel disastro ha incubato e tradotto in realtà. Non per sciogliere il nodo dei titolari della colpa, ma almeno per comprendere dove si siano annidati origine e vizio di una simile azione suicida. Magari tornare a pensare gli iscritti e la vita democratica di una comunità come antidoto alla solitudine nelle scelte o al cinismo del calcolo su convenienze presunte, ci aiuterebbe a guadare il torrente. Ma al fondo se un congresso si fa dovrebbe essere anche per questo. Detto ciò tu hai scritto del bisogno di spiegare “quel che non va nel rapporto di potere instaurato da tempo da questa sinistra inseritasi nell’establishment col sistema delle imprese pubbliche e private e con la finanza”. Lo chiedi citando nomi e situazioni diverse, la vicenda di Rita Lorenzetti, le telefonate di Mussari, il mancato approfondimento di Bersani sull’inchiesta Penati. Poi tu stesso premetti che vuoi star lontano da qualsiasi giustizialismo. Qualcosa che considero un frutto bacato di una sinistra che su quel piano ha smarrito l’anima. Non sono certo di riuscire a soddisfare a pieno la richiesta che mi fai ma provo a dirti come la vedo. Penso che nel corso degli ultimi quindici, vent’anni la sinistra abbia conosciuto un cedimento culturale sul versante della sobrietà e della consuetudine tra ambiti del potere destinati per regola a rimanere separati. Credo sia accaduto per ragioni diverse. Una cultura politica esangue e schiacciata sull’identificarsi del singolo nelle istituzioni. Tra le conseguenze il fatto che non valesse più la tua appartenenza – a un partito e a una parte – ma lo status conquistato in una logica che ha rafforzato la natura di un ‘ceto politico’ disposto in alcuni casi a compromessi irragionevoli pur di non uscire dal campo. Da lì non era meccanico il passaggio a una deriva penale, anche se gli episodi non sono mancati. Ma il punto è proprio quello: che non era l’azione delle procure a dover guidare le scelte della politica, e ovviamente neppure l’inverso. Semplicemente la sinistra avrebbe dovuto costruire argini più alti per evitare che l’acqua esondasse e che alcune contiguità tra il ceto politico e l’universo degli affari dessero vita a poteri ibridi anche quando formalmente leciti. Del resto siamo la patria di fra Cristoforo che sale da Don Rodrigo per tutelare il debole e si trova davanti l’arroganza del ricco attovagliato col podestà e l’azzeccagarbugli in una familiarità del potere e della giustizia che nega alla radice il diritto di chi potere non ha e di giustizia va in cerca. Non penso che la sinistra abbia svenduto se stessa e si sia accomodata a quel tavolo. Se lo credessi avrei lasciato da tempo il mio partito. Credo però che abbiamo concesso un margine al dubbio. E che recuperare la nostra autonomia – di coerenza e parola – sia l’atto dovuto verso milioni di elettori. Poi – come diciamo sempre – la magistratura faccia il suo mestiere. Il punto, per una volta, non è quello. Il punto è che si faccia noi meglio il nostro. Allora, per finire, ti dirò che ho in mente tre parole. Etica è la prima. Dobbiamo tornare a dirci che l’etica per un partito è tutto e comunque è molto più di un buon programma di governo. È la veste che deve tornare a coprire ogni cosa che riguardi un soggetto politico: l’uso delle risorse, la coerenza con cui si perseguono obiettivi e si affermano idee. E poi sobrietà e rigore nell’esercizio della funzione pubblica. Il secondo termine è autonomia. Una politica che non si occupasse di ‘affari’ negherebbe se stessa e cederebbe in appalto (a chi poi?) una parte notevole della sua responsabilità. Dunque non parlo di distacco, meno che mai di indifferenza. Penso invece a quella ‘distanza’ che arricchisce la prospettiva, dà profondità, indipendenza e consente una libertà di scelta nel perseguire l’unico interesse che conti: quello comune. Quando sento evocare il bisogno di politici che non parlino con l’impresa, e con gli imprenditori, o quando mi sento spiegare che un partito non dovrebbe occuparsi del destino industriale del Paese, mi chiedo quale concezione si abbia della politica, dei partiti, del Paese. Certo che si deve separare la mano politica dal braccio gestionale, e che bisogna restituire a ciascuno il ruolo che gli è proprio. E dunque netta sia la presa d’atto che politica e amministrazione debbono vivere separate, che la stagione delle nomine di partito in enti pubblici e affini ha da essere archiviata e laddove sopravviva la si combatta mostrando nelle scelte la fondatezza delle promesse. Ma questo non ha nulla a che fare col dovere di una classe dirigente di vedere il futuro e, se ci riesce, di programmarne uno spicchio. La terza parola, la meno originale e la più negletta da tempo, è onestà, che poi è uno di quei termini davanti a cui è bene fermarsi perché quasi sempre a declinarlo se ne spoglia il senso. Per cavarmela mi appello a Saba e a quella sua sintesi geniale. Cosa resta da fare ai poeti si chiedeva, e la risposta chiudeva il cerchio, “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”. Intendeva la necessità di non alterare l’ispirazione cercando, diremmo noi, l’effetto fine a sé. Convivere, se necessario, con una grazia minore, ma non vestirsi di panni non propri al solo scopo di conquistare l’applauso dei paganti. Ecco, con l’umiltà del caso ti dirò che ai politici resta da fare una cosa sola: la politica onesta. Potrebbe sembrare poco, mi rendo conto. Il minimo dovuto se si pensa ancora e solo al rispetto delle regole. Allora onestà non come programma e neppure solo istanza morale. Onestà semplicemente come imperativo che investe la politica tutta e fa i conti, infine, con una storia nemmeno troppo recente. Mi pare una bella sfida per il PD da pensare: fare ciò che a partire da un qualche punto in avanti non siamo più stati capaci di fare. Penso voglia dire recuperare una sobrietà nella pratica, chiudere la pagina dei doppi o tripli incarichi anche in casa nostra, restituire all’impegno del singolo quel tanto di gratuità e generosità che in troppi momenti si è smarrito per strada. E al tempo stesso tornare alla radice che da sempre sorregge la vitalità di ogni pianta politica: far sì che ogni nostra parola e gesto, giorno per giorno, dicano chi siamo e per cosa stiamo al mondo.

Con amicizia
Gianni

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