Giannini e l’anno zero del capitalismo italiano

sabato, 29 marzo 2014

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Sono passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica “di tipo leninista”: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro.
Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, dovremmo forse esultare della felice resipiscenza? In teoria, sì, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada –come ci avverte fin dal titolo l’ultimo saggio di Massimo Giannini- in un panorama di macerie: “L’anno zero del capitalismo italiano” (Editori Laterza/la Repubblica, pagg. 136, euro 5,90).
Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, il vicedirettore di questo giornale fornisce un’analisi di sistema che è insieme economica e politica. Descrive con sapienza l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia. Come nella fuga dalle loro responsabilità degli azionisti Telecom riuniti nella Galassia del Nord che cedono il controllo agli spagnoli pur di limitare le perdite, e se ne infischiano se il 78% degli altri azionisti comuni mortali che hanno comprato in Borsa non vedranno un centesimo. Come il plenipotenziario Paolo Scaroni che all’Eni riesce a scansare lo scandalo del crollo di valore della controllata Saipem, perché lui appartiene a una consorteria imprescindibile. E avanti di questo passo.
Fa impressione la sintesi che Giannini ci propone dei maggiori gruppi imprenditoriali pubblici e privati del nostro paese: quando fanno profitti, li fanno all’estero. Qui da noi hanno contribuito a una desertificazione percepibile non solo nella grande industria ma anche nella finanza. Ritorno all’anno zero del capitalismo, appunto. Dove vengono meno anche i polmoni del credito se è vero che “Montepaschi resta una bomba a orologeria” destinata quasi inevitabilmente alla nazionalizzazione. Mentre Intesa Sanpaolo, concepita con l’ambigua e non meglio precisata funzione pseudopolitica di “banca di sistema”, oggi si ritrova acefala, logorata nei suoi vertici e oppressa da troppe grandi operazioni finite in perdita.
L’angusto orizzonte del capitalismo di relazione, passando il vaglio della prolungata depressione economica, rivela scenari imbarazzanti. Perché i protagonisti di spoliazioni aziendali o di raggiri contabili, in tale consesso, non possono essere liquidati come corpi estranei da cui prendere le distanze. Giannini fa due nomi per tutti: Giuseppe Mussari e Salvatore Ligresti. Mele marce? Davvero Mussari che ancor oggi si fa fotografare a cavallo nella campagna senese ha potuto turlupinare l’intero mondo bancario italiano godendo di protezioni politiche trasversali, senza che i colleghi ne avessero percezione? E quanto a Ligresti, di cui solo ora tutti pronunciano a voce alta il soprannome “coppoletta”, siamo sicuri che integrarlo nel salotto buono servisse solo al vecchio compaesano Cuccia, o invece ha fatto comodo a tanti altri banchieri contemporanei?
Massimo Giannini considera il 2013 l’anno cruciale del disfacimento di questa economia di relazione minata nelle sue fondamenta. E’ l’anno che precede, non a caso, il definitivo espatrio della Fiat trasformata da Marchionne in multinazionale svincolata dagli impianti italiani; con grande beneficio per l’accomandita Agnelli e grave danno per il sistema paese. Ma nella sua appassionante ricostruzione già nel 2011 era saltato un architrave decisivo di questo sistema collusivo in cui varie debolezze si sostenevano a vicenda: parliamo della presidenza delle Generali bruscamente sottratta a Cesare Geronzi, e con lui a uno scivoloso baricentro in cui si ritrovano sottogoverno e Vaticano, immobiliaristi e concessionari pubblici, ex industriali passati alla rendita e lobbisti millantatori in cerca di nuovo lustro. Chi ha fatto saltare quel vecchio equilibrio, lo spiega bene Giannini, è a sua volta una miscellanea rivoltasi al Tremonti di turno che attraverso l’ancora giovane manager di Mediobanca, Alberto Nagel, coalizzava i nuovi potenti, diversissimi fra loro: ormai cosmopoliti come Luxottica e De Agostini, piuttosto che arcitaliani come Caltagiron e Della Valle. Uniti nel guardare dall’alto in basso gli ambienti sbrindellati di prima, senza accorgersi di quanto gli somigliano.
Nel primo capitolo del suo saggio, Massimo Giannini si pone domande radicali di fronte a questo scenario desolante. Se il principio costitutivo del capitalismo globale contemporaneo è una curvatura tendenzialmente antidemocratica che svalorizza il lavoro e devasta risorse industriali e naturali, in Italia questo fenomeno assume caratteristiche parossistiche. Se altrove, cioè, si pone un problema di “tosatura” del sovrappiù di un’economia cartacea che rischia di soffocare l’economia reale, in Italia l’anno zero del capitalismo rischia di lasciare in braghe di tela gli uni e gli altri.

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