Uso e abuso della parola “rosicone”: una esegesi

lunedì, 21 aprile 2014

L’ultima a adoperarla è stata la blogger-scrittrice Selvaggia Lucarelli. Reagendo a una recensione critica di Elisabetta Ambrosi su “Il Fatto”, ha pensato bene di darle in romanesco della “rosicona”. Cioè dell’invidiosa. Nel caso specifico era in questione il tema dell’aitanza pettorale, sul quale non ho titolo per soffermarmi. Sono invece molto interessato al ritorno in auge della parola “rosicone”, utilizzata spesso con ostilità anche nei miei confronti da personaggi dello spettacolo come Antonio Ricci, in risposta alle critiche che rivolgo loro. E’ molto sintomatico, nonché frequente, tale riflesso condizionato: anziché replicare alle critiche, si dà del “rosicone” a chi le esprime. Cosa significa, precisamente? Si insinua con malcelato compiacimento che la persona da cui provengono le critiche, ovvero il “rosicone”, altro non sia che un infelice frustrato dall’impossibilità di godere delle medesime fortune (o virtù) del criticato. Rosica perché prova invidia. Neanche passa per la testa di questi usatori e abusatori del termine “rosicone” che altri possano considerare non desiderabile ciò che essi sono o ciò che essi hanno. Guarda caso, Berlusconi è andato avanti per anni a motivare come frutto d’invidia ogni manifestazione critica nei suoi confronti. Non so perché certi “arrivati” soffrano di un tale limite esistenziale che li induce a reiterare l’accusa di “rosicone” a destra e a manca. Ma il sospetto è che siano stati molto “rosiconi” da piccoli.

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