Papa Francesco e gli ebrei, dopo l’attentato antisemita di Bruxelles

domenica, 25 maggio 2014

L’odio millenario contro gli ebrei macchia nuovamente di sangue il suolo d’Europa proprio nei giorni in cui si elegge il Parlamento che riunisce i nemici di tante guerre passate. Così l’antisemitismo omicida cambia di segno anche il viaggio di Francesco in Israele. Perché rinnova il senso di pericolo incombente sul popolo ebraico perfino là dove pareva che il senso di colpa rendesse irripetibile la caccia all’ebreo.
Questa minaccia, tale a spingere addirittura all’emigrazione cittadini appartenenti alle comunità israelitiche, precipita sul pontefice, che non potrà prescinderne.
Prima dell’attentato di Bruxelles non si attendevano sorprese da Francesco nel dialogo ebraico-cristiano –sostanzialmente fermo da quasi tre lustri- e proprio per questo l’arrivo in Israele del papa “terzomondista”, come tale guardato con sospetto dalla destra non solo religiosa (ma anche papa gesuita, seguace dell’appassionato biblista cardinale Martini) di sorprese potrebbe riservarne eccome.
Quando nel marzo del 2000 il cardinale Roger Etchegaray suggerì a Giovanni Paolo II di rivolgersi agli israeliani nel loro stesso linguaggio simbolico, infilando in una fessura del Muro del Pianto il famoso biglietto con la richiesta di perdono al “Dio dei nostri padri” per le sofferenze arrecate agli ebrei, pareva inaugurarsi una stagione straordinaria d’incontro e trasformazione reciproca, nello spirito del Giubileo. Papa Wojtyla aveva faticato non poco a imporre la sua linea di “purificazione della memoria” a un collegio cardinalizio in cui lo stesso cardinale Joseph Ratzinger aveva manifestato le sue perplessità sulle possibili conseguenze dottrinali di simili “mea culpa”.
E difatti pochi mesi dopo arrivò dalla Congregazione per la Dottrina della Fede come una doccia fredda, il 6 agosto 2000, la dichiarazione “Dominus Iesus”: a scanso di equivoci, non vi è salvezza possibile senza il riconoscimento del Cristo. Neanche per gli ebrei, di cui implicitamente si ribadiva la condizione imperfetta e provvisoria.
Per la verità la frenata della “Dominus Iesus” non dispiacque all’ala più tradizionalista del rabbinato, a sua volta timorosa di un sovversivismo teologico che riavvicinasse troppo giudaismo e cristianità, magari nel riconoscimento di Gesù come profeta ebreo. Di seguito arrivarono i catastrofici attentati islamici dell’11 settembre 2001 a favorire il serrate le righe, ciascuno nel proprio recinto identitario.
Divenuto papa, Benedetto XVI confermò la sua scelta di derubricare il dialogo interreligioso come “dialogo interculturale” che non rimettesse in forse le certezze dogmatiche. Buon vicinato, purché fosse chiaro che quando si dialoga bisogna “mettere tra parentesi la propria fede”. Gli ebrei si accontentassero della revoca conciliare dell’accusa di deicidio e di un generico, mai codificato riconoscimento di validità della loro biblica alleanza col Signore.
Vari incidenti di percorso, non tutti involontari, portarono a un congelamento ufficiale del dialogo: nel 2005 il rabbino capo di Roma giudicò inaccettabile che la commemorazione in Vaticano della “Nostra aetate” fosse affidata a un ebreo convertito, il cardinale Lustiger; nel 2008 la riscrittura del messale tridentino per il venerdì santo ripropose un’ambigua preghiera per “l’illuminazione” degli ebrei; e l’anno dopo tutto il mondo ebraico giudicò offensiva l’apertura di Ratzinger al vescovo negazionista lefebvriano Richard Williamson.
Da allora non sono mancati i pellegrinaggi, le visite in sinagoga, una certa sintonia diplomatica col governo israeliano nella comune vigilanza contro il pericolo del fondamentalismo islamico. Ma sempre col tacito accordo di non addentrarsi nella materia teologica.
Ora tocca a papa Francesco, che si è affacciato dalla finestra di San Pietro presentandosi tutt’altro che come paladino dei valori occidentali. Anzi, criticandone semmai la degenerazione capitalistica che condanna alla povertà le periferie del mondo. Tanto basta per indurre al sospetto una componente maggioritaria dell’opinione pubblica ebraica e israeliana. Non sarà forse un papa per sua stessa vocazione filopalestinese?
Nell’aprile scorso un editoriale di “Shalom”, il mensile della Comunità romana, ha accusato gli organi di stampa dell’Ucei di avere instaurato un’eccessiva sintonia con l’”Osservatore romano”. Piccoli segnali di diffidenza, in attesa che Francesco prenda posizione nei delicati equilibri mediorientali. E’ la stessa attesa sospettosa che sta vivendo in queste ore il governo di Netanyahu.
Così sono rimaste in ombra le prime dichiarazioni impegnative, di natura religiosa e non politica, che papa Bergoglio ha dedicato al rapporto fra cattolici e ebrei nella lettera a Eugenio Scalfari del settembre 2013. Eppure, proprio in quel testo Francesco ha delineato le premesse di una svolta epocale. Non solo ribadisce che “mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele”, seppellendo così due millenni di teologia sostitutiva secondo cui la venuta del Cristo supererebbe l’antico Patto (“Nel dire nuovo, Dio ha reso antiquata la prima alleanza”, Lettera agli ebrei 8,13).
Francesco è andato ben oltre, esprimendo ammirazione per la tenacia con cui gli ebrei, nonostante “le terribili prove attraversate”, “hanno conservato la loro fede in Dio”. Rivela di interrogarsi continuamente sul significato provvidenziale di tale perseveranza e giunge a riconoscerlo come esempio per i cristiani. La persistenza ebraica da maleficio, come fu per secoli additata nella dottrina della Chiesa, si trasforma addirittura in insegnamento rivolto agli stessi cristiani: gli ebrei “richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come pellegrini, del ritorno del Signore, e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto”.
Mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto. L’attesa messianica che accomuna gli uomini di fede nella speranza di redenzione è l’esatto contrario della dogmatica imperante. Vale per l’ebraismo, da sempre diviso al suo interno fra l’autorità conservatrice dei rabbini e la pulsione mistica del messianismo. Così come vale per i cristiani come il cardinale Martini che non si lasciano inaridire dai dogmi del passato.
Il viaggio di Francesco in Giordania, Palestina e Israele contempla il rilancio dell’ecumenismo e il dialogo con l’islam. Ma anche l’incontro con la radice ebraica del cristianesimo domani potrebbe riservarci belle sorprese.
Anche i morti di Bruxelles ci ricordano che il destino degli ebrei non può essere rinchiuso in un museo. È carne viva di un futuro che, se non ci riunisse, se davvero avessero ragione gli ebrei belgi che intendono fuggire dal loro paese, diventerebbe terribile come il tempo vissuto dai nostri padri.

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