Da Scajola alle Coop, la pacifica convivenza di Berneschi che mandò Genova sul lastrico

venerdì, 30 maggio 2014

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.

Fingiamo di prenderlo per buono, l’argomento che ti senti ripetere dai potenti della Superba che ora si ritrova con le pezze sul didietro, dato che la sua Fondazione Carige s’è mangiata quasi per intero il patrimonio: dicono che questo Giovanni Berneschi, senza il cui beneplacito a chiedere un prestito in banca perdevi tempo, era troppo genovese perché i genovesi si accorgessero che rubava.
“Era un gran tirchio, se andavi a prendere un caffè non pagava mai. Severo anche con se stesso, arrogante ma sobrio, gergo da scaricatore di porto e non certo da salotto buono, induceva a considerarlo serio e onesto”, racconta Remo Checconi, 82 anni, tessera comunista dal 1949, da oltre mezzo secolo in Coop Liguria e dal 2007 consigliere d’amministrazione della Carige. Ora il compagno Checconi si dichiara amareggiato –“da vecchio bolscevico posso sopportare gli incapaci ma non i ladri”- però è un fatto che mugugnarono anche loro, gli uomini delle Coop rosse, quando nell’agosto 2013 Berneschi fu defenestrato dopo decenni di strapotere.
“Noi eravamo fautori di un ricambio, ma ordinato”, si giustifica Francesco Berardini, presidente di Coop Liguria. “Avevamo investito nella Carige per difendere l’idea di una banca vicina al territorio”. Insieme a loro avevano comprato una quota azionaria pure gli emiliani di Coopsette, divenuta l’impresa di costruzioni più forte nell’area genovese. Facevano parte dei cosiddetti “pattisti” che sostenevano Berneschi e il suo vice Alessandro Scajola, fratello dell’ex ministro arrestato, insieme a Gavio e Bonsignore.
Ce n’è abbastanza per parlare di cupola degli affari, garantita da un tacito patto territoriale fra Claudio Scajola, plenipotenziario del Ponente ligure anche attraverso la rete delle Camere di Commercio, e il presidente di sinistra della Regione, Claudio Burlando, senza dimenticare le necessità dell’arcivescovo in carica, Bertone o Bagnasco che fosse? Troppo facile. Ora che è emerso il meccanismo delle ruberie mascherate con le perdite del ramo assicurativo, e il doppio schermo per riportare a Genova dalla Svizzera centinaia di milioni in nero, fra cui il bottino personale di Berneschi, si capisce che la fetta più grossa della torta se la spartivano imprenditori amici di quell’”uomo del popolo”, venuto su dal quartiere di San Fruttuoso dove in gioventù aveva fatto amicizia con Beppe Grillo. Un tipo, il Berneschi, che nel fine settimana si graffiava la faccia e le mani lavorando la sua campagna a Ortonovo, nello spezzino, lontano dalla Genova bene. Genovesissimo, appunto, come mi spiega il vecchio avvocato Alfredo Biondi, nel cumulare il denaro attraverso cui misurava il suo ego, ma senza mai ostentarlo.
Chi dal dicembre scorso ha dovuto mettere il naso nelle erogazioni (e ahimè nei debiti) della Fondazione Carige, quando ormai la frittata era fatta, è l’avvocato Paolo Momigliano, nominato in fretta e furia presidente al posto dell’imprenditore dolciario Flavio Repetto, quello che insieme al territorio finanziava pure la romana Lux di Ettore Bernabei. Operazione a cui si oppose perfino il suo vicepresidente Pierluigi Vinai, uomo di Scajola e dell’Opus Dei, candidato sindaco della destra sconfitto alle elezioni da Marco Doria. Fatto sta che il povero Momigliano –non vorremmo essere al suo posto- proprio ieri ha dovuto svalutare di 934 milioni il bilancio della Fondazione, nel mentre fatica a vendere azioni Carige ormai crollate nel valore per salvare ciò che resta del patrimonio: sceso da oltre un miliardo a 90 milioni. Uno spaventoso falò di ricchezza: la Carige che tre anni fa valeva 2,6 miliardi ne ha bruciati nel frattempo due terzi. Una pessima notizia per l’economia ligure. Si potranno anche intentare chissà quante azioni di responsabilità, ma quel miliardo e 600 milioni dissipati non si recupereranno più.
E’ frugando nei criteri di erogazione dei finanziamenti e dei prestiti che Paolo Momigliano ha dovuto constatare che la teoria della cupola, per quanto suggestiva, non regge alla prova dei fatti: diciamo che seppure tutti quelli che contano avessero un motivo per stare con benevolenza nell sistema Berneschi, all’area del Pd, e in particolare degli ex Ds, nella spartizione toccavano solo le briciole. Con il senno di poi, a mezza bocca, i dirigenti genovesi del Pd riconoscono che la vocazione consociativa ha impedito che si intervenisse per tempo a impedire le ruberie.
Me lo conferma, sia pure con qualche eufemismo, anche un altro vecchio comunista, Roberto Speciale, che dopo due mandati al Parlamento europeo divenne consigliere della Fondazione Carige: “La strategia del coinvolgimento di tutti, ha portato a una distribuzione assai diseguale delle risorse. Così oggi rischiamo di confondere gli episodi più gravi con quelli secondari. Noi protestavamo con Berneschi e il suo complice Menconi per le centinaia di milioni di perdite che ogni anno ci imponevano mantenendo il ramo assicurazioni. Ma certo non immaginavamo che servissero per operazioni non limpide”.
Vado a Palazzo Tursi per incontrare il sindaco Marco Doria, come Momigliano anch’egli un outsider, un marziano nel sistema di potere. Lui che di mestiere prima faceva lo storico dell’economia genovese, smentisce che il sistema venuto giù fosse governato da una cupola: “Qui il potere si è disarticolato, frantumato. Mezzo secolo fa ruotava intorno a tre figure centrali come il ministro democristiano Taviani, il capo della Confindustria, Angelo Costa, e il cardinale Siri. Ai quali si contrapponevano la sinistra e il movimento operaio. Diciamo che banca Carige è divenuta poi un luogo di convivenza, senza bisogno di pensare alla cupola”. E le Coop rosse? “Il movimento cooperativo si è trasformato in soggetto economico rilevante, non diverso dagli altri se non nella sua base sociale. Certo che se avesse usufruito di una copertura politica, sarebbe un errore. La lezione di questo scandalo è che i soggetti istituzionali devono imparare a agire con trasparenza senza invadere campi altrui. Certe contiguità danneggiano l’efficienza del sistema, oltre che risultare giustamente inaccettabili ai cittadini”.
A Genova in questi giorni ci si chiede se non siano stati tardivi gli interventi di vigilanza di Bankitalia, avviati nel 2009, ma per quattro anni rimasti invisibili. E qui entra in gioco la solita economia di relazione, di cui Giovanni Berneschi era divenuto uno snodo cruciale non certo solo localmente, come dimostra il fatto che fino a una settimana fa restava vicepresidente dell’Abi, l’associazione dei banchieri italiani.
Nell’epoca delle grandi operazioni di fusione degli istituti di credito, personalità genovesi come l’ex sindaco Giuseppe Pericu e l’imprenditore Titti Oliva avevano sollecitato che anche l’allora florida Carige si integrasse nel nuovo sistema creditizio. Gli rispondevano col solito ritornello: Genova ha bisogno della “sua” banca di territorio. Ora si capisce il perché. E nel frattempo Berneschi estendeva il suo sistema di alleanze. Rapporti privilegiati con lo Ior, per il tramite dell’ex arcivescovo Tarcisio Bertone, divenuto segretario di Stato vaticano. Ma pure rapporti con i salotti buoni della finanza, dall’associazione delle Casse di Risparmio guidata da Giuseppe Guzzetti, fino a Mediobanca. Vorrà dire qualcosa se Gabriele Galateri di Genola si è dimesso dal cda Carige per evidente inopportunità solo nel 2011, quando è diventato presidente delle Generali. Poco più di un anno dopo fu chiamata nello stesso cda sua moglie, Evelina Christillin, la quale peraltro avrebbe votato per la rimozione di Berneschi. I tempi cambiano.
Ora la città aspetta di conoscere la lista dei cento “fortunati” che insieme a Berneschi avrebbero goduto di conti schermati dal Centro Fiduciario Carige. Peccato che nel frattempo la Fondazione difficilmente potrà corrispondere le erogazioni ai soggetti deboli e alle istituzioni culturali, che poi sarebbe la sua vera finalità. Si annunciano tempi duri, la finanza rapace qui non ha il volto cosmopolita dei milanesi fratelli Magnoni, ma ha fatto danni ben peggiori. La beffa è che a proteggerla, involontariamente, è stato proprio quel buon senso praticone di una classe dirigente che pensava di garantirsi l’eternità con la pacifica convivenza trasversale. Ciascuno proteggendo i suoi, fino a che da distribuire non sono rimaste neanche le briciole.

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