Renzi e il governo nel paese in cui comandano le cricche

venerdì, 6 giugno 2014

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.

Nella lotta contro la corruzione dilagante, il governo rischia di apparire sopraffatto e disorientato. Come se, al di là dei proclami, fosse privo dell’attrezzatura politica necessaria. Neanche la trionfale vittoria elettorale del 25 maggio riesce a cancellare questo senso d’impotenza di fronte a un fenomeno che ha oltrepassato -da Milano a Genova a Venezia a chissà dove ancora- ogni cupa immaginazione.
Matteo Renzi deve smentire il dubbio che la rottamazione si applichi solo ai suoi concorrenti diretti, in una logica di mera sostituzione, mentre in giro si continua a rubare. Da segretario del Pd è chiamato a debellare senza reticenze i gruppi d’interesse economico-affaristico che hanno trovato protezione nelle strutture territoriali del suo partito. Ma come capo del governo gli tocca chiedersi se in un frangente così drammatico, di fronte a un sistema che si rivela marcio, Alfano al Viminale e Lupi alle Infrastrutture siano gli uomini giusti al posto giusto. Dopo gli arresti di Venezia, i due esponenti del Ncd, di cui è risaputa la familiarità con alcuni responsabili degli scandali, hanno ripetuto solo che “i lavori delle grandi opere devono continuare”. Fatichiamo a immaginarceli protagonisti della necessaria opera di risanamento.
“Le regole ci sono, il problema sono i ladri”, dice Renzi. Ma se l’illegalità è divenuta prassi nell’assegnazione delle opere pubbliche, approfittando di deroghe ai meccanismi di controllo, ciò si deve alle continue incertezze normative che l’opinione pubblica e gli stessi imprenditori hanno percepito come volontà politica lassista. Ieri Massimo Giannini ha elencato una sequenza di provvedimenti annunciati e mai varati, nonché di cavillosi dietrofront, da cui si deduce che la lotta alla corruzione non è mai divenuta una priorità dell’azione di governo. Al contrario, lo scandalo del Mose di Venezia rivela che grandi aziende titolari di commesse pubbliche sono in grado di assoldare sindaci, assessori, ex ministri e ufficiali della Guardia di Finanza, per sottometterli alle loro convenienze. Lo Stato al servizio degli affari, in una logica perversa di distorsione del mercato che non solo umilia la democrazia, ma reca danni irreparabili alla nostra economia.
Il ricatto non ha fine neanche quando la magistratura scoperchia il malaffare. Perché ora subentra la logica del fatto compiuto: non si possono lasciare i lavori a metà. Dopo il danno, la beffa. Se la Maltauro si è aggiudicata con la frode gli appalti per le aree di servizio (67 milioni) e le vie d’acqua (42 milioni) dell’Expo di Milano, chi mai oserà estrometterla? In fondo è solo la capofila, ci sono altre aziende coinvolte nei cantieri…
Quanto alle dighe mobili della laguna di Venezia, già realizzate all’80%, stessa storia, nessuno è in grado di sostituire la Mantovani.
Ma proprio questo è il punto, come giustamente sottolinea il commissario anticorruzione Raffaele Cantone: “Nessuno deve poter ottenere vantaggio dalla propria attività delittuosa”. Le tangenti distribuite sono spiccioli rispetto ai profitti che Maltauro e Mantovani, ma anche Manutencoop e altre imprese, otterranno grazie alla corruzione dei faccendieri e dei politici amici.
Qui può intervenire un governo intenzionato a ripristinare le regole di mercato. Chi ha danneggiato i concorrenti sfuggendo al rischio imprenditoriale, chi ha scelto la scorciatoia di un tanto a te e un tanto a me, chi ha turlupinato le istituzioni con le formule magiche del project financing e del main contractor, ricavando fondi neri con le sovrafatturazioni, deve subire la revoca degli appalti. Lo ha chiesto a Milano il sindaco Pisapia, ricordando che queste aziende per lavorare avevano sottoscritto con la Prefettura un protocollo di legalità che le impegnava a “denunciare ogni illecita richiesta di denaro formulata prima della gara o nel corso dell’esecuzione dei lavori”. Pena “la possibilità di revoca degli affidamenti o di risoluzione del contratto”. Parole inequivocabili, alle quali ora devono seguire i fatti: se è inevitabile, le maestranze degli imprenditori rei confessi continuino pure a lavorare sotto commissariamento; purché sia loro espropriato ogni profitto illecito.
Lunedì si riuniscono in assemblea a Milano gli imprenditori di Assolombarda. C’è da augurarsi che il loro presidente Gianfelice Rocca sia il primo a esigerlo. Ma è inutile farsi illusioni: se l’andazzo delle deroghe alle procedure di controllo sulle grandi opere ha proliferato fino a incancrenire il sistema, ciò si deve a una legittimazione venuta dall’alto. Forse la classe politica riteneva che in tempi di crisi economica la briglia sciolta potesse facilitare le imprese; o forse più realisticamente suoi esponenti vi hanno colto l’occasione per arricchimenti facili. Fatto sta che il risultato è sotto gli occhi di tutti.
La lotta alla corruzione in Italia non può essere delegata a singoli specialisti, mentre i ministri si occupano delle riforme. Siamo diventati il paese delle cricche e delle cupole che, insieme alle mafie, si sostituiscono alle istituzioni nel governo del territorio. Per scoperchiarle, Renzi dovrà mettersi alla testa di una mobilitazione civile; facendo saltare molti compromessi di potere che fin qui parevano avvantaggiarlo.

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