La vendetta corre su internet e minaccia la civiltà d’Israele

venerdì, 4 luglio 2014

 

Questo articolo è uscito su “La Repubblica“.

Am Israel doresh nekama, ovvero “Il popolo d’Israele chiede vendetta”. Un giovane soldato si è sbottonato la divisa e fa il saluto marziale dopo che se lo è scritto in caratteri ebraici, col pennarello rosso, sull’addome. “Il popolo d’Israele chiede vendetta” è il nome di un gruppo Facebook che, prima di essere rimosso, in due giorni aveva oltrepassato le 35 mila adesioni (quelle che leggiadramente chiamiamo “mi piace”). I promotori di questa fatwa blasfema sollecitavano adesioni dichiarandosi per nome e immortalandosi col selfie. Molti gli hanno dato retta. Anche una mamma che si mostra tenendo in braccio la sua bambina. Anche due ragazze che precisano: “Odiare gli arabi non è razzismo, è un valore”.
La vendetta è una pulsione umana difficilmente controllabile. Può esprimersi selvaggiamente. Di solito le comunità d’appartenenza tendono a circoscriverla nella sua imbarazzante dimensione privata, intima. Anche a protezione di chi la manifesta.
Il sequestro e l’omicidio di Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel, così come di Mohammad Abu Khdeir, nel calcolato intento di scatenare feroci pulsioni di vendetta hanno trovato il supporto di internet come luogo di condivisione dell’odio. Così il secolare conflitto arabo-israeliano è riuscito a compiere un ulteriore, inedito salto di qualità, grazie alla manipolazione degli stati d’animo collettivi.
La parola d’ordine della vendetta propagata nella dinamica virtuale della rete ottiene l’effetto di imprigionare ogni strategia politica e militare. La piega nell’imperativo di corrispondere alla furia che pretende di essere saziata. Se il governo israeliano sta esitando più di altre volte nel pianificare una reazione dopo il colpo subito, è anche perché subisce il condizionamento della sete di vendetta organizzata in rete. Vendetta è categoria che soverchia e prevale. Calpesta ogni piano razionale di dissuasione bellica e perfino il calcolo spietato della rappresaglia. Internet peggiora la guerra, la imbarbarisce.
Ho ricordato che la vendetta cova in seno alle comunità d’appartenenza. Già mi figuro che per il fatto stesso di avere scritto questo articolo qualcuno mi accuserà di essere un ebreo che odia se stesso (e se invece si trattasse di amore?). Verrà additato il tradimento dei “tuoi”. Verrà estratto il bilancino per dimostrare gli squilibri nella sensibilità mostrata: soffri per Mohammad ma dimentichi Eyal, Gilad e Naftali. O viceversa. Perché non scrivi che piovono razzi palestinesi sulle case di Sderot? Come osi impiegare la parola pogrom per le aggressioni estremiste a civili arabi? Sbatti in prima pagina l’inciviltà di un isolato sfogo su Facebook omettendo di precisare che Tzipi Livni, ministro della Giustizia israeliana, ha annunciato un procedimento legale contro i suoi promotori?
Già in passato Israele, come la Palestina, hanno vissuto sommovimenti emozionali di odio collettivo. Dopo la pace di Oslo si creò un clima che portò fino all’omicidio del primo ministro Rabin, e i responsabili dei servizi segreti israeliani dell’epoca hanno fatto pubblica ammenda: avevano escluso che degli ebrei, per quanto fanatici e minacciosi, potessero giungere a tanto. Ora c’è internet. E fra le centinaia di messaggi in cui si propugna l’uccisione di arabi se ne trovano alcuni in cui si invoca la morte anche per i pacifisti israeliani. Ci si incendia l’un l’altro, attraverso la predicazione della vendetta come sentimento condiviso dal popolo.
Naturalmente internet è anche il luogo della diffamazione e della disinformazione. E’ un sito italiano, Right reporter, a diffondere in rete dopo l’omicidio del sedicenne Mohammad che non si tratterebbe di una vendetta. Sarebbe stato ucciso “in una faida interna tra famiglie palestinesi malavitose e perché sarebbe stato omosessuale”.
Se la cattura e l’omicidio di ragazzi innocenti è di per sé una raffinata forma di crudeltà in grado di terrorizzare un popolo intero, il passo ulteriore è proprio questa assoluta negazione dell’altro che ne consegue. Ebbe il coraggio di scriverlo Avraham Burg, ex presidente del parlamento israeliano, nei giorni immediatamente successivi al sequestro dei tre ragazzi. Notava Burg come allignasse nell’opinione pubblica ferita una specie di sollievo di fronte alle oscene manifestazioni di giubilo segnalate fra i palestinesi: “Noi ci assolviamo dicendo che loro distribuiscono dolci per festeggiare il rapimento. La loro felicità ci rassicura. Più felici sono, più ci sentiamo esentati dall’interessarci alla loro sofferenza”. Così gli israeliani possono rimuovere il fatto che “tutta la società palestinese è una società di sequestrati. E lo siamo anche noi quando, prestando servizio militare, entriamo nelle loro case di notte, a sorpresa e con violenza. Questo è un male e un’ingiustizia cui tutti partecipiamo”.
Per il fatto di sostenere la necessità dell’immedesimazione nella sofferenza altrui, Burg viene disprezzato come traditore. Torna alla mente l’insegnamento di Alexander Langer che durante la guerra civile balcanica esaltava la funzione preziosa dei transfughi disposti a rischiare l’isolamento pur di sollecitare l’autocritica nell’ambito della propria comunità; astraendosene senza mai separarsene definitivamente.
Il tempo buio della vendetta postata su internet “mettendoci la faccia”, promette solo una distruzione dell’umanità senza ritorno. E’ la nostra umanità che distruggiamo, illudendoci di annullare quella nemica.

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