In lode di Carlìn Petrini per festeggiare i suoi 65 anni

lunedì, 14 luglio 2014

Nei giorni scorsi Carlo Petrini ha compiuto 65 anni e ha ricevuto in regalo dagli amici un libro pieno di bei ricordi. Questo è il mio contributo.

In lode del Carlin risalgo parecchio indietro negli anni, quando i nostri cominciavano ancora con davanti un bel due e un amico comune che purtroppo non c’è più –uomo, compagno, intellettuale grande di testa e di cuore, Franco Carlini de “Il Manifesto”- mi portò a conoscere quegli strani tipi di Bra, matti forte: organizzavano a inizio primavera un giro a piedi fra le cascine delle Langhe, stonando le canzoni dei partigiani e dei contadini, ricevendone in cambio uova e, naturalmente, bicchieri di vino. Canté j’euv si chiamava quella roba lì, manifestazione popolare per nulla politica, all’apparenza, ma gli strani tipi di Bra che l’avevano riesumata erano pur sempre di sinistra, visto che avevano fondato un circolo Arci (sia pur apponendovi l’impropria desinenza “gola”).
Poteva essere l’ultimo degli anni Settanta o il primo degli Ottanta. Vivevo a Genova dove Franco Carlini era la mia guida ideale, con frequenti puntate nel Piemonte che fino ad allora per noi altro non era che la città operaia della Fiat. A Torino si consumava l’amara sconfitta di Mirafiori, della quale tuttora sopportiamo le conseguenze; e lì abitava un altro genovese, Pietro Marcenaro, bene introdotto nella vicenda sindacale e di fabbrica. Anche lui come Carlin Petrini militante del Pdup (estrema sinistra moderata, è un ossimoro ma mi sembra definizione veritiera), anche lui frequentatore delle Langhe per motivi che infine sarebbero divenuti i miei: comprare il vino giusto, certo, ma insieme conoscere la tempra e la storia degli uomini che gli davano quel sapore unico.
Mi considero molto fortunato per averlo conosciuto allora, Carlin Petrini. Così posso affermare con sicurezza che non è mai cambiato, nel senso che non si è montato la testa col successo: se l’era montata per tempo, la testa, imbevendola in quella speciale bonomia piemontese che consente di pensarle in grande rimanendo affezionati al piccolo.
Di quel mondo contadino schivo narrato da Nuto Revelli come il “mondo dei vinti”, Petrini era un seguace devoto prima di assumere il ruolo di suo organizzatore culturale. Sapeva bene di esprimere, attraverso l’esperienza storica, agricola, enologica e gastronomica di quella comunità isolata, dei valori che non si potevano rinchiudere solo nell’appartenenza politica. Ma dal senso d’appartenenza non si poteva prescindere perché da quelle parti la Resistenza antifascista era stata una cosa seria, vissuta intensamente, custodita come i pintoni di quello buono murati nelle pareti di casa (questo l’ha fatto il papà di Beppe Rinaldi a Barolo), in ogni caso memoria fresca e sensibile.
Così poteva accadere che sulla terrazza del ristorante Brezza a Barolo, o direttamente nella cantina di Bartolo Mascarello, si potessero incontrare Nuto Revelli arrivato da Cuneo e Vittorio Foa accompagnato lì da Marcenaro presso cui dormiva a Torino. E magari pure l’impareggiabile maestro di giornalismo, Giorgio Bocca, che in Langa ridiventava quel che era stato prima, il partigiano provinciale. Non sarà certo per caso se sua figlia Nicoletta, dopo aver frequentato il mio stesso liceo del centro di Milano, ha scelto quei bricchi e quella terra calcarea per fare del vino di quello giusto.
In mezzo a cotanta compagnia, noi che il vino all’epoca potevamo permetterci di comprarlo solo in damigiana, eppure se ne trovava lo stesso di eccellente, noi ci sentivamo piccoli. Scoprivamo un mondo di valori che prescindeva ironicamente dalle beghe di partito, non s’intimidiva di fronte ai padroni della grande fabbrica e dei giornali, trattava Einaudi come un compaesano eccentrico, coltivava l’appartatezza con la fiducia di avere un bene inestimabile da tramandare.
Ecco, credo che Carlin Petrini sia stato plasmato in quello spirito di sufficienza e lungimiranza che l’hanno reso saggio in anticipo, all’età in cui di norma si è scavezzacollo. Lo aiutava la voce grave, autorevole, benché pronta a sciogliersi nella risata; e anche la barba patriarcale anzitempo, senza cui non riesco a immaginarmelo. Quando in seguito il gioco cominciava a farsi grosso e diversi imprenditori fiutarono come da quelle parti si potesse far lievitare anche il business, lui era ormai strutturato abbastanza da trattarli cordialmente ma senza alcun timore riverenziale. Piemontese furbo, certo, in ciò rinforzato però da un’altra caratteristica: a lui personalmente i soldi non importavano. Ne avrebbe potuti fare a palate; non l’ha voluto. L’ho visto compiacersi per il benessere di cui iniziarono a godere certi vignaioli con cui aveva condiviso le pezze al culo. Mai ha demonizzato moralisticamente la ricerca del benessere economico, depositario com’era dei racconti della malora contadina. Ma le sue creature, da Slow Food a Terra Madre, si sono sempre rivolte ai contadini poveri, intorno ai quali ha lavorato per costruire anche il sostegno degli abbienti.
E’ il Carlin che può raccontarti divertito il suo passaggio alla corte inglese, seduto al tavolo di un’osteria semplicissima ma resa unica dalla sapienza inimitabile della Mariuccia (la mamma di Fabrizio Iuli, mio maestro e socio nel campo della barbera). Perché lui sa bene che dopo la Mariuccia mica ne troverai delle altre capaci di farti la lepre in salmì o la pernice ripiena con la medesima antica sapienza. E sa che quello non è folclore, non è capriccio lussurioso: è cultura. Tale consapevolezza è alla base della formidabile capacità di propagazione internazionale delle idee di Carlin Petrini: semplici e profonde.
Lo abbiamo visto trasformarsi in viaggiatore e stentavamo a credere ai suoi racconti. Ma poi negli incontri torinesi ce le ha fatte incontrare di persona, quelle storie contadine sparse nei cinque continenti eppure così vicine l’una all’altra. Più avanti è capitato a noi tutti di imbatterci in località remote nei presidi più inaspettati della memoria agricola, dove il suo nome suonava come un lasciapassare. Perfino a Gerusalemme mi è capitato: menu biblico e grandi saluti al Carlin.
Il che mi fa venire in mente la più strana delle telefonate da lui ricevute, negli anni in cui abitavo a Torino. Era morto in un paese vicino a Bra, se non sbaglio a Cherasco, l’unico ebreo residente. Per dargli sepoltura recitando il Kaddish secondo la norma era obbligatoria la presenza di almeno dieci maschi ebrei adulti. Fummo reclutati anch’io e Luciano Segre, non so come ma il tetto di dieci fu conquistato e la cerimonia ebbe luogo come da volontà del defunto.
Poi è nata Pollenzo, l’università, dove ti iscrivevi volentieri tra i soci fondatori sganciando la quota stabilita senza immaginare minimamente che sarebbe diventato quel che è diventato. E’ l’inconveniente di avere a che fare con i visionari: ti spiazzano, fai finta di credergli, gli dai retta dissimulando lo scetticismo, e poi…
Ripensandoci, devo a persone come Carlo Petrini (scriviamo Carlo come si deve, per una volta) non solo il mio amore per il Piemonte, ma il legame che ho instaurato con questa terra. Mai avrei pensato che un ebreo errante rimasto parecchio apolide di spirito finisse per avere come unica sua proprietà la cascina in Monferrato, e per giunta piantandoci le radici di una vigna. Ma questi sono fatti miei, poco interessanti.
Resta invece l’insegnamento straordinario di un’identità locale che non diviene retorica passatista, che non si lascia corrompere dalla manipolazione affaristica, che suscita un movimento di trasformazione globale a partire dal particolare, che sorride a chi gli si avvicina esprimendogli al tempo stesso un richiamo severo alla giustizia. Giustizia sociale e giustizia ambientale.
Quando ho visto Carlo Petrini sul palco di una manifestazione pubblica circondato da giovani africani colti, autorevoli e militanti, nei suoi occhi luccicava un orgoglio indescrivibile: le sue idee camminano in giro per il mondo su gambe robuste e con cervelli fini. Ma anche in quella serata internazionale, coi discorsi tenuti quasi tutti in inglese, Carlo non ha rinunciato alla citazione di un proverbio contadino nel suo dialetto: “Poc l’è poc, ma nient l’è trop poc”. Va là che sei un grande!

Gad Lerner

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