Chateau Monfort, la siepe che separa ricchi e poveri a Milano

giovedì, 17 luglio 2014

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.

Silenziosi, con gli occhi spenti dei sopravvissuti, davanti a Chateau Monfort adesso si radunano pure i cinquecento profughi eritrei che scendono a frotte, decine per volta, dal tram numero 9, alla fermata di viale Piave angolo piazza Tricolore. Qualcuno gli ha spiegato che in corso Concordia 3 c’è la mensa dei francescani dove li sfameranno gratis. Così sfilano davanti a corso Concordia 1 e osservano meravigliati il sontuoso palazzo liberty dell’architetto Paolo Mezzanotte, quello che ha costruito la Borsa di Milano, trasformato in albergo 5 stelle che si ispira al mondo delle fiabe. Per ristrutturarlo, insieme all’architetto, ci hanno lavorato due scenografe.
Le guide turistiche lo raccomandano per la sua “posizione centrale”, la signorilità del quartiere Monforte, il quadrilatero della moda e il Duomo raggiungibili comodamente a piedi. Non aggiungono che lì davanti bivacca la folla dei pezzenti in costante aumento e sempre in attesa di un pasto caldo.
Violando il codice non scritto dell’urbanistica metropolitana che raccomanda di evitare ogni contatto diretto fra gli antipodi della gerarchia sociale,il bordo meridionale di piazza Tricolore dà luogo a un paesaggio inaudito: mescola le due Milano che per pudore non vorrebbero mai specchiarsi l’una nell’altra. Ricchi e poveri, lusso e miseria. Un laboratorio a cui è difficile abituarsi, anche se i passanti filano via perché l’imbarazzo e il timore prevalgono sulla curiosità.
Per attenuare l’impatto hanno escogitato una frontiera simbolica, un aggiramento delle normative sull’occupazione del suolo pubblico. Una volta ottenuta la deviazione della pista ciclabile, Chateau Monfort ha piazzato uno di fianco all’altro quattro vasi rettangolari di siepe e li ha montati su rotelle, di modo da poterli considerare amovibili. Così dal dehors dove i valletti prelevano il bagaglio della clientela in arrivo, la visuale dell’Opera San Francesco risulta parzialmente limitata. Anche se, come mi fa notare ridendo il senzatetto Peppe, portantino licenziato dal 118 romano, “ogni tanto un’auto blu sbaglia ingresso e porta i ricconi in mezzo a noi poveri in fila dietro alle transenne della mensa”. Da gennaio poi l’albergo ha ottenuto in gestione l’aiuola pubblica di fronte all’ingresso, sicché gli addetti alla sicurezza hanno diritto di sloggiare chi prova a coricarsi sul prato all’inglese. Quanto alle panchine, sono state sradicate nonostante le proteste degli immigrati e dei clochard. Mi indicano sconsolati i segni della perduta comodità rimasti sul lastrico. Per appoggiarsi a bere una birra o un cartone di vino, vietati nella struttura francescana, gli restano solo aguzzi dissuasori metallici.
La colpa di tutto ciò risale al mitico Fra Cecilio Cortinovis, il portinaio del convento di viale Piave che nel 1959 volle costruire proprio lì una struttura d’accoglienza per i poveri. E a chi la giudicava inopportuna, in una zona residenziale borghese, replicava: “Ma è mai possibile che in centro a Milano debbano starci solo i peccatori?”. Il cardinal Martini ne ha avviato il processo di beatificazione, ma certo neanche Fra Cecilio avrebbe mai immaginato che proprio lì di fianco nascesse un hotel per il quale, fra le centinaia di commenti entusiasti dei visitatori registrati da TripAdvisor, si sprecano aggettivi come “superlativo”, “mozzafiato”, “gioiello incantevole”.
Sono le 18,30. I poveri si accodano col tesserino (ma i nuovi venuti eritrei anche senza) per ottenere la loro razione di polpette di soia. Ivan Donati comincia a suonare il piano nel lounge bar Mezzanotte sormontato da una cupola di vetro, dove gli aperitivi sono serviti con deliziosi fritti di verdura. Mentre fuori mi chiedono un euro per comprare il Tavernello, il superpremiato sommelier Michele Garbuio offre su prenotazione degustazioni nell’apposita Cella di Bacco, dove a comando il vino scorre dalla bocca di una statua. Le docce e la lavanderia dell’Opera San Francesco lavorano a pieno ritmo mentre nel sottosuolo del Chateau la spa Amore e Psiche propone docce emozionali aromatiche con sauna, bagno turco e piscina di acqua salina. Proprio a ridosso della siepe-frontiera il Comune ha piazzato un gabinetto chimico dalla serratura rotta, che emana un lezzo inconfondibile. Lì si radunano i romeni più sbandati, ogni tanto si divertono a buttare bottiglie vuote dall’altra parte. Ma niente di grave.
La struttura francescana arriva a distribuire fino a duemila pasti a mezzogiorno e duemila la sera. L’utenza di nazionalità italiana resta minoritaria, ma dal 2008 è cresciuta del 61%. I musulmani nel periodo del Ramadan hanno diritto di prelevare cibi secchi che mangeranno dopo il tramonto. Anche se sarebbe vietato, c’è chi trafuga qualcosa per il cane rimasto fuori. Altri, mi dicono sottovoce, per i bambini.
“Con il nuovo arrivo degli eritrei temo che dopo il Ramadan qui finiremo al collasso”, mi dice il responsabile laico della mensa, Andrea Rossetto. Nel bivacco di corso Concordia serpeggiano mormorii ostili dei poveracci bianchi contro i neri (“chissà che malattie portano”) e contro gli arabi (“mica sono cristiani come noi, quelli”). I clienti dell’albergo non meritano lo stesso disprezzo.
Chiedo al successore di Fra Cecilio, padre Maurizio Annoni, se trova aspetti positivi in questo strano vicinato: “La siepe tiene distinti i due ambiti, evitando un passaggio non pericoloso ma certo dannoso per entrambi. Ma guardarsi e condividere lo stesso territorio può recare beneficio a entrambi. I nostri poveri hanno bisogno di non essere giudicati per la loro condizione poco dignitosa. I clienti dell’albergo? Non so, posso dirle che dopo averci incontrati lì davanti Cristina Chiabotto ha voluto trascorrere con noi una giornata da volontaria”.
Padre Annoni rivolge parole di amicizia al proprietario di Chateau Monfort, l’imprenditore Vincenzo Vedani che, prima di avviare i lavori, ha portato tutta la famiglia in visita all’Opera San Francesco: “Sua moglie Lucia negli anni ottanta incontrò dei malati di tumore che dopo la chemio trascorrevano la notte sulle panchine di piazzale Gorini e decise di costruire CasAmica, quattro strutture d’accoglienza per chi viene a curarsi a Milano e per i loro parenti. Poi ci hanno dato una mano anche qui alla mensa”.
Aggiro la siepe e vado a sorseggiare un Cosmopolitan con questo ingegner Annoni, patriarca di una di quelle famiglie milanesi che hanno fatto i soldi veri, centinaia di milioni, con un secolo di industria dell’alluminio e poi con tutte le successive diversificazioni finanziarie, compresa la catena alberghiera Gruppo Planetaria. Vedani mi accoglie col figlio Stefano ammettendo che “la gestione di questa vicinanza non è così semplice”. In molti gliela avevano sconsigliata. Solo per ottenere di mettere quella siepe c’è voluto un anno e mezzo di burocrazia. Anche se l’albergo gli sta dando soddisfazioni, pieno com’è di clientela straniera, forse non lo rifarebbe. “Ma io non provo disagio, se proprio non vengono a orinare qui davanti. La mia è una famiglia partita molto in basso e questo contrasto fa parte della vita”. I clienti non si lamentano? “Qualcuno, ogni tanto, pazienza. Si lavora bene lo stesso. E per occupare con la scala esterna 26 metri quadri di proprietà dell’Opera San Francesco gli abbiamo bonificato duecentomila euro. I rapporti sono ottimi”.
In effetti sulle 567 recensioni TripAdvisor dei clienti, solo cinque o sei rilevano la vicinanza insolita: “Alla reception mi hanno spiegato che erano innocui”. Rimozione? Diniego? Indifferenza morale? Finché regge allo stress, questo è l’equilibrio precario della metropoli contemporanea. Meglio godersi le stanze e le suites a tema operistico, magari senza affacciarsi dalla finestra. Turandot, Uccello di fuoco, Butterfly, Cenerentola, la cromoterapia fornita dai led, il ristorante Rubacuori, il tavolo multimediale di fronte al banco del concierge. La gentile senior sales manager Cristina Testini che mi porta in visita fra i quattro piani e le settantasette camere, spiega: “Cerchiamo l’effetto stupore. Siamo l’unico Relais & Chateaux della città e quindi vogliamo incantare i clienti con i tre aggettivi che contraddistinguono Milano: retrò, chic e glamour”. Manca solo barbùn, ma a quello ci pensano gli affamati là fuori.

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