Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Sembra la trama di un romanzo e invece è un tragico passaggio fra due secoli quello che ha scelto di fronteggiare, con portamento tuttora fiero nonostante i suoi 91 anni, Henk Zanoli: l’avvocato olandese proclamato Giusto fra le nazioni che per senso di giustizia ripudia l’onore concessogli a Gerusalemme da Yad Vashem. Così rendendo omaggio all’insieme di una straordinaria biografia: dapprima la sua famiglia, che fra il 1943 e il 1945 mise a repentaglio la vita pur di salvare un bambino ebreo; e ora i suoi acquisiti congiunti palestinesi uccisi il 20 luglio scorso dal bombardamento israeliano di Gaza.
Di mezzo ci sono sette decenni, l’intreccio di quattro generazioni e il dilemma morale che lacera le nostre coscienze: l’Israele di oggi, l’Israele che c’è, non sta forse gettando un’ombra sinistra sull’eterno Israele messianico luogo di salvezza?
Si chiamava Elhanan Pinto il bambino ebreo sottratto dai Zanoli alla furia nazista che già gli aveva strappato i genitori e i fratelli. Per decisione della madre Johana, l’allora ventenne Henk Zanoli andò a prenderlo in custodia a Amsterdam e con un viaggio avventuroso riuscì a nasconderlo per due anni nella casa di famiglia a Eemnes, nei pressi di Utrecht. Nel mentre che il padre Zanoli, di cui Henk porta orgogliosamente il nome, veniva deportato a Mauthausen, da dove non avrebbe più fatto ritorno. Elhanan, il salvato, nel dopoguerra, sarebbe approdato in Israele.
Il destino ha voluto che una nipote di Henk Zanoli, Angelique Eijpe, entrata nel corpo diplomatico olandese, sposasse un palestinese nato nel campo profughi di Al-Bureij nella striscia di Gaza. Dove una bomba israeliana ha distrutto la casa dei nuovi parenti di Angelique, che naturalmente Henk sente anche suoi: Muftiya, Jamil, Omar, Youssef, Bayan e il dodicenne Shaaban. Sei morti fra le macerie.
Così Henk Zanoli ha deciso di chiedere appuntamento all’ambasciatore dello Stato d’Israele presso il Regno d’Olanda e gli ha restituito la medaglia di Giusto fra le nazioni –Chasidei umot haolam in ebraico- il riconoscimento più alto tributato da Israele, dopo lunga istruttoria, a quei Gentili che, senza chiedere nulla in cambio, hanno rischiato la loro vita per salvare anche uno solo dei perseguitati.
La scelta compiuta dal Giusto, che tale naturalmente rimane, è terribile e nobile al tempo stesso. Come la lettera con cui l’ha motivato. Scelta terribile perché, anche senza volerlo, ripropone un’insidiosa, ambigua comparazione fra i crimini di cui furono vittime gli ebrei settant’anni fa in Europa, e gli atti criminali compiuti nel corso di azioni di guerra dallo Stato che di quelle vittime si sente erede e portavoce. Scelta nobile perché investe la sua autorevolezza nel denunciare l’ottenebrarsi delle coscienze, spinte ad tollerare come necessari la strage dei civili e la prospettiva dell’apartheid.
“Conservare l’onorificenza concessami dallo Stato d’Israele in queste circostanze –ha scritto Henk Zanoli all’ambasciatore- sarebbe un insulto alla memoria della mia coraggiosa madre così come un insulto alle ultime quattro generazioni della mia famiglia”. Ma non basta. E’ qui che Zanoli introduce l’argomento più controverso: “Dopo l’orrore della Shoah la mia famiglia ha sostenuto con forza il popolo ebraico anche riguardo alle sue aspirazioni a un focolare nazionale. Ma in più di sei decenni ho cominciato a realizzare che il progetto sionista fin dall’inizio conteneva in sé un elemento razzista mirante a costruire uno Stato esclusivamente per gli ebrei”.
Credo sia necessario dissentire da questo passaggio. L’esclusivismo negatore di una possibile convivenza con gli arabi di Palestina fu teorizzato solo da una corrente interna al movimento sionista, da altri contrastato, e dunque non ne rappresentava un esito inevitabile. Il che non toglie che riesca arduo disgiungere l’anelito di redenzione, l’impronta socialista e ugualitaria del movimento di liberazione ebraico, da quell’altro ineludibile dato di fatto che Ari Shavit, nel suo bel libro “La mia terra promessa” (Sperling & Kupfer) ha avuto la franchezza di definire: “la brutalità sionista”. Non è un caso se gli storici revisionisti israeliani che per primi hanno documentato l’esistenza di un piano per scacciare i palestinesi dalle loro case durante la guerra d’indipendenza del 1948, da Ilan Pappe a Benny Morris, pur giungendo a identiche conclusioni ne abbiano poi tratto conseguenze radicalmente opposte: il primo giudicandolo un peccato originale inestinguibile; il secondo giustificando quella brutalità come passaggio inevitabile.
Oggi tale controversia non può certo appassionare il Giusto olandese colpito nei suoi affetti. Anche se Henk Zanoli, dall’alto della sua veneranda età, potrebbe testimoniare che le violenze perpetrate nella prima metà del secolo scorso in Palestina apparivano poco più che un dettaglio della storia, al cospetto del genocidio di milioni di ebrei di cui allora l’Europa portava freschissima la macchia. Il problema è che quella brutalità si sarebbe perpetuata nei decenni successivi, fino a oggi, quando il mondo (per fortuna) fatica a sopportarla.
Henk Zanoli non è il primo testimone a coinvolgere Yad Vashem, cioè la suprema istituzione che elabora e onora la memoria della Shoah, nel confronto con le guerre mediorientali. Pochi ricordano il sopravvissuto ai lager, Schlomo Schmalzman, che nell’estate 1982, quando Begin e Sharon scatenarono un’offensiva portando le truppe di Tsahal fino alla conquista di Beirut, salì sul monte Herzl a Gerusalemme e, all’interno di Yad Vashem, intraprese uno sciopero della fame. Voleva così protestare contro l’osceno strumentale paragone con cui il premier Begin aveva sostenuto: L’alternativa all’attacco in Libano è Treblinka”. Durante quella stessa guerra un comandante di brigata, Eli Geva, rifiutò di guidare le sue truppe alla presa di Beirut precisando, per scongiurare insinuazioni sul suo coraggio, che avrebbe partecipato all’operazione da soldato semplice.
Ancora oggi una delle voci più note del dissenso israeliano, la giornalista di “Haaretz” Amira Hass, rivendica la sua opera di denuncia delle discriminazioni inflitte ai palestinesi come tributo all’esperienza vissuta dai suoi genitori: la madre deportata a Bergen Belsen; il padre rinchiuso nel ghetto di Shogorad. Né va dimenticato un predicatore del dialogo come Marek Halter che non esita a incontrare i dirigenti di Hamas presentandosi loro come sopravvissuto del ghetto di Varsavia.
La forza del gesto di Henk Zanoli ripropone l’insidia dei paragoni storici spesso branditi con stolta o maliziosa ignoranza all’unico scopo di umiliare chi ancora si porta addosso le piaghe della Shoah. Può davvero esistere un buon uso, non strumentale, di simili comparazioni? Quante volte, in malafede, si è calpestato perfino il più elementare senso delle proporzioni? In Europa oltre 5 milioni di morti in quattro anni, in Palestina centomila morti in un secolo…
Una risposta la fornì a suo tempo il sopravvissuto vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia, Marek Edelman, autonominatosi “guardiano” degli ebrei polacchi sterminati. Nel 1993 decise di accompagnare fin dentro a Sarajevo assediata un convoglio di aiuti umanitari. Diciamo che si è proposto egli stesso come “allusione” necessaria. Se serve, a fin di bene, con la dovuta cautela, in casi eccezionali, i Giusti possono violare il paradigma sacrale dell’unicità dello sterminio che ha sfregiato l’Europa. Di fronte agli armeni, agli zingari, ai cambogiani, ai tutsi, agli yazidi, ai milioni di profughi di nuovo oggi in fuga dalle loro case, chi mai avrebbe titolo per proibirlo?
Un tragico destino ha voluto che all’età di 91 anni la vita romanzesca dell’avvocato olandese Henk Zanoli giungesse a racchiudere in sé una multipla appartenenza: vittima del nazismo che gli ha ucciso il padre, coraggioso amico e salvatore degli ebrei, prozio acquisito dei palestinesi di Gaza. Mi auguro che nel Giardino dei Giusti a Yad Vashem il suo albero cresca rigoglioso. Egli consegna una testimonianza preziosa, se saprà accoglierla, innanzitutto alla coscienza lacerata d’Israele. L’Israele che è in noi, offuscato dall’Israele che c’è.