Il diario veneziano del cinefilo Alberto Alfredo Tristano/2

venerdì, 29 agosto 2014

Scrivendo subito dopo i 210 minuti – duecentodieci – di “Mise en scéne with Arthur Penn”, documentario di Amir Naderi sotto forma di intervista a camera fissa (una di quelle proiezioni darwiniane per un pubblico composto dall’autore medesimo, Enrico Ghezzi, Steve Della Casa e non più di altre quindici persone) su uno dei più grandi registi americani del dopoguerra (“Piccolo grande uomo”, “Gangster Story”, “Anna dei miracoli, “Bersaglio di notte”…), la virtù della sintesi o è soppressa o è un duro lavoro.
Penn, dicevamo. Nato povero. Sbattuto per l’America per via di una famiglia spaccata dal divorzio, aiutato dal fratello Irving diventato poi fotografo di successo, va in guerra avendo poco studiato, pochissimo visto e quasi nulla vissuto. Al ritorno è un altro uomo: l’esercito gli ha costruito una personalità, pur essendo lui un antimilitarista. Recupera tutto il tempo studiando, debutta in teatro diventando una colonna di quell’Actors Studio che rivoluziona lo spettacolo americano del secondo Novecento, approccia la tv, debutta nel cinema. Regista di star (Brando, Newman, Beatty, Hoffman, Dunaway), poeta della violenza e della femminilità emancipata e intraprendente, dalla metà dei Sessanta rivolta la settima arte. Tutto il cinema degli Scorsese, dei Coppola, dei Cimino, è figlio suo. “Mise en scéne with Arthur Penn” è una lunghissima chiacchierata (e ci sono altre tre ore nel cassetto…) su questo maestro dal sorriso dolce, che al cinema (e al teatro, dove è stato assai più attivo) ha dato moltissimo pur in una produzione assai ristretta. Passerà a breve a “Fuori Orario” su Rai Tre.
Quanto al concorso, è comparso dopo “Birdman” un altro dei film più attesi: “The look of silence” di Joshua Oppenheimer. Ideale continuazione di “The act of killing”, uno dei film più importanti degli ultimi anni, ritorna sulla drammatica vicenda della persecuzione anti-comunista in Indonesia. Chi sogni Bali, sappia che è un paradiso insanguinato: un milione di morti, assassinati in tre mesi, giorno e notte, nel 1965 furono il prezzo agghiacciante del rovesciamento di Sukarno e la presa di potere della giunta militare capitanata da Suharto. Quel regime dura tuttora. Se “The act of killing” fu la straordinaria indagine sul senso di colpa di alcuni degli assassini di allora, “The look of silence” è un film invece sull’impunità di molti di quei responsabili: che non furono mai perseguitati, anzi hanno avuto il loro posto nella società, c’è chi è diventato assai ricco, chi copre addirittura incarichi politici di rilievo. Il protagonista è un oculista, cui ammazzarono il fratello, e che non si rassegna all’ingiustizia: non cerca vendetta, ma la verità. Invece la reticenza continua, irrobustita dalla demenza senile, dalla boria del potere, o dalla vergogna che perdura. Il tempo non ha cancellato la memoria: ce lo ricordano i titoli di coda, dove abbondano gli “anonymous” nei vari ruoli. Fare film, film come questi, è un piccolo atto eroico. E ci vuole tutto il talento di Oppenheimer, giovane texano trapiantato in Danimarca ma stanziale in Indonesia da sette anni, per fare del coraggio civile un’opera d’arte. Non ai livelli di “The acy of killing”, dopotutto difficilmente eguagliabile, ma comunque importante.
Il concorso ci riserva che “La rançon de la glorie” di Xavier Beauvois. Due balordi immigrati in Svizzera hanno l’idea per svoltare dai loro affanni: è il Natale del ’77 e vicino casa loro muore Charlie Chaplin. Che fare se non rubare la bara e chiedere un riscatto? Buona commedia, molto giocata sugli interpreti (monumentale Benoît Poelvoorde). Spassosa, ma non nuova. Anzi. Cinque anni fa da noi uscì un film, “L’ultimo crodino”, di Umberto Spinazzola con Ricky Tognazzi e Enzo Iacchetti: due balordi in Val Susa devono fronteggiare difficoltà gravi e decidono di trafugare, scopo riscatto, la bara di un illustre trapassato. Era Enrico Cuccia…
Alberto Alfredo Tristano

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