Il diario veneziano del cinefilo Alberto Alfredo Tristano/3

venerdì, 29 agosto 2014

Inesorabile e incomprensibile è la faida, la catena del sangue che infiamma e alimenta l’odio tra due famiglie. Una fenomenologia della faida è “Anime nere” di Francesco Munzi, che riprende l’idea e lo spirito dell’omonimo romanzo noir di Gioacchino Criaco per farne lo spaccato di una famiglia criminale della Calabria, quella che resta come Piovene la osservava, una “regione labirinto” che è “allo stesso tempo un mosaico e un puzzle”. I pezzi esplosi da ricomporre per descriverla sono la modernità criminale, che abbraccia i continenti con i traffici di armi e droga, e l’arcaismo delle pulsioni, delle convinzioni, delle gabbie che le impediscono di liberarsi del suo male storico. Munzi allestisce un nerissimo quadro familiare che ricorda molto da vicino “Fratelli” di Abel Ferrara: ma la famiglia non è compatta sulla scelta dell’illegalità, perché il maggiore dei fratelli, Luciano (un Fabrizio Ferracarne da premio), ne rifiuta la irreversibilità e le si oppone, ma anche lui è come piegato come da una sottile ferita psichica che si apre sempre di più e senza rimedio. Gli fanno da contraltare i due fratelli, Rocco e Luigi, stabilitisi nella moderna Milano, polo terminale degli affari dall’Aspromonte, anzi da Africo, paese doppio su cui anni fa Corrado Stajano compose un memorabile libro-reportage che era a un tempo ricerca antropologica e inchiesta criminale (“Gli africoti odiano il mare” era l’inizio…). Munzi aggiorna quello spirito adeguandolo alla crime story contemporanea (perciò dimenticate le famiglie del Padrino, meglio il già citato Ferrara o Cronenberg) con un gusto del racconto quasi documentario (esplicita la citazione del cinepoema pitagorico-calabrese “Le quattro volte” di Michelangelo Frammartino, con l’uomo che beve la polvere sciolta nell’acqua come cura del malessere). Nessun cliché, nessuna concessione agli stilemi, tensione continua su una realtà incredibilmente rimossa dal racconto nazionale, fino al finale: anzi, al finalissimo.
Che i tempi siano duri e feroci ovunque ce lo ricorda anche “99 Homes” di Ramin Bahrani, con Michael Shannon nei panni di uno squalo del mercato immobiliare, che specula sulla gente rimasta di punto in bianco senza casa a causa della bolla sui mutui. Che succede se in due minuti devi prendere tutte le tue cose e lasciare la tua dimora se non vuoi essere arrestato? Devi sopravvivere: che compromessi sei disposto a fare, specie se chi ti offre lavoro è lo stesso che ti ha rovinato? E se ti seduce con i suoi affari, che scegli di fare? Potresti riavere la tua casa, ma c’è un punto che non puoi oltrepassare? “99 Homes” articola la sua narrazione attorno a queste domande, con gran ritmo. E’ l’America nera del nostro presente.
Tutt’altra America è quella invece di “She’s funny that way”, scintillante commedia di Peter Bogdanovich. Questi, essendo uno dei registi cinefili per eccellenza che della propria cinefilia ha lasciato testimonianza anche scritta in uno dei libri di cinema più famosi di sempre, quell’”Io, Orson Welles” col più grande dei grandi, stavolta allestisce un copione preciso al microscopio, lo inscena a New York e ne fa una eccellente commedia di Woody Allen senza Woody Allen (quelle che nemmeno Woody Allen sa più fare, peraltro). Gioco delle coincidenze e dell’amore, in una New York piena di escort bionde e di attori nevrotici, di giudici squilibrati e psicologhe infelici: divertimento allo stato puro. Non manca la cinefilia, che è una specie di arte combinatoria: dove trovate assieme Quentin Tarantino (con uno spassoso cameo) e il Lubitsch degli “scoiattoli con la testa di rapa”?

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