Il diario veneziano del cinefilo Alberto Alfredo Tristano/4

sabato, 30 agosto 2014

Al Pacino, dal Pacino, col Pacino. Obbligatorio è aprire a questo punto della Mostra un capitolo sulla star italo-hollywwodiana che a Venezia è presente con ben due film: “The Humbling” di Levinson e “Manglehorn” di Green. Messi in insieme, le pellicole offrono più o meno l’intera gamma espressiva del grande attore: l’istrionesco e il crepuscolare, l’eccessivo e il dimesso, il conflittuale e il pacificato. Nel primo, come in “Birdman”, vediamo prodursi il deragliamento psicologico di un attore, con l’ansia di un debutto, la complessità di coniugare il vissuto e il recitato: il fatto che il film sia tratto da un testo di Philip Roth, orienta tutto il discorso nel rapporto tra i sessi a partire dal sesso: e in effetti tra eterosessualità, omosessualità rinnegato, cambi di sesso, sesso immaginato (e per niente consumato), tutto frullato con forti dosi di nevrosi, la parabola dell’attore indeciso tra un Lear e una pubblicità per capelli conduce inevitabilmente a un’esplosione. Diverso invece il personaggio di “Manglehorn”, prigioniero di un passato che gli ha lasciato rimpianti e solitudine, producendo una rabbia tutto compressa che si sfoga nella chiusura al mondo, nello spedire lettere che tornano indietro, nel non saper cogliere le occasioni di ripartenza. Se vuoi avere un futuro, devi liberarti dei macigni del passato.
Pacino gioca tra i due ruoli con canonica bravura, ed è impossibile non sottolineare come, a differenza di molti colleghi tentati da aggiustamenti e varie manutenzioni chirurgo-plastiche, metta in campo un corpo che ha tutti i segni dell’età, che manifesta le sconfitte degli anni in acciacchi e cali fisici, in andature incerte, in ingobbimenti per troppi pesi. Pacino non recita, ma gioca col tempo, il suo, quello scritto sulla carta di identità (New York, 25 aprile 1940), da perfetta anti-star, fissando l’ennesima traccia lungo la strada dei suoi splendidi “losers” del passato (probabilmente irripetibili), cani braccati che continuano a perdere eppure a vivere nonostante tutto. Il metodo dell’Actors Studio, il suo, è basato sui contrasti: devi recitare l’opposto, per la gioia il dolore, per l’amore l’odio. Ecco, accade esattamente questo: quanto più Pacino incarna la sconfitta, tanto più rilancia l’idea di vitalità.
Il corpo è anche la base del personaggio di Pierfrancesco Favino nel film “Senza nessuna pietà”: un corpo appesantito, cementificato, un deposito di violenza pronta a sfuggire al controllo. Favino, che del film è anche produttore, interpreta un uomo che lavora nei cantieri edili ma soprattutto spacca le ossa alla gente per conto di suo zio, criminale della periferia romana (Davoli). Tutto cambierà con l’incontro con una giovane escort, che lo induce a rompere con la sua vita e a imboccare una pericolosa via sentimentale. Davoli e borgate richiamano inevitabilmente a Pasolini (che in concorso è direttamente presente come oggetto del film di Abel Ferrara), ma il film di Michele Alhaique, giovane attore all’esordio nel lungometraggio, si muove su anche altre coordinate: per il discorso sulla violenza e la solitudine quasi autistica del protagonista, un modello potrebbe essere stato Refn. Un film, onesto, non sbalorditivo, tutto centrato su Favino, che con intelligenza ha deciso di rischiare del suo per realizzarlo e così poter uscire da personaggi un po’ standardizzati che gli vengono offerti.
Un curioso noir cinese campagnolo è “Binguan”: in una piccola comunità muore un po’ di gente, per via del caso e di conflitti personali. Solo che in paese quando si trova un cadavere scomodo nei boschi si ha la bella idea di bruciarlo, e siccome c’è di mezzo anche un furtarello, le identità dei cadaveri si confondono, con bizzarri scambi di persone (defunte). Il regista Xin Yukun frantuma il tempo, va avanti e indietro nella cronologia, segue situazioni interrompendole e riprendendole alcune scene dopo, trascinando la storia in un flipper impazzito di risvolti. Molti colpi di scena, calibrati in un copione scritto assai bene, tanto da vampirizzare la regia che ha invero pochi colpi originali. Ha catturato molti del pubblico veneziano, attivando un sorprendente passaparola festivaliero.

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