Il diario veneziano del cinefilo Alberto Alfredo Tristano/6

lunedì, 1 settembre 2014

Adesso sì. Proiettati i tre film italiani che gareggiano per il Leone d’Oro, “Anime nere”, “Hungry hearts” e “Il giovane favoloso”, si può fare un primo bilancio della nostra rappresentanza in celluloide sugli schermi veneziani. Non per nazionalismo, ma c’è da essere contenti per quanto visto: intanto il concorso è di buon livello (altri bei colpi sono in arrivo – assicurano – con Andersson, Ferrara e Koncaloskij), ed essere buoni tra i buoni è certamente una virtù ulteriore. Inoltre, un merito importante che accomuna i tre film sembra essere lo sforzo stilistico, l’impulso necessario di approcciare la propria materia con sguardo autentico, originale, onesto. E’ una qualità che va riconosciuta a Munzi come a Costanzo e Martone.
Quanto agli esiti, “Anime nere” è il film che ha colpito maggiormente. Omaggiato dalla stampa straniera come da quella italiana, assume un argomento poco se non mai trattato finora nel nostro cinema, la ‘ndrangheta, e ne fa il canovaccio per una cupa tragedia familiare, impastata di mito e di contemporaneità criminale, con un’attenzione – ed è un ulteriore merito, derivato dal gran libro di Criaco che è alla base del film – anche al paesaggio fisico, l’aspra Calabria d’Aspromonte, come personaggio fondante della storia. “Anime nere”, sin da ora, dal suo esordio sulla scena pubblica, ci pare avere un valore storico per il nostro cinema, che non può che evolvere e arricchirsi: fa della crime-story una strategia di racconto antropologico, alla Abel Ferrara, meno barocca e depalmiana delle “Gomorra” e “Romanzo Criminale”, più duramente immersa nel privato dei personaggi, nella loro emotività oscura che confonde religiosità pagana, legami di sangue, fatalismo, vocazione di violenza, raccontando il meccanismo della faida come un’inesorabile funzione matematica della morte. Una sola parola: premio.
“Hungy Hearts” ha invece un’esplicita ambizione internazionale, che aggira un budget limitato spingendo massimamente sulla lotta di personalità, sull’amore come sodalizio ingannevole, non per malafede ma perché la vita vive di maggiori complessità, non ultima le incerte dinamiche sociali che la fondano, in cima a tutte la famiglia. Costanzo prende un lui e una lei, li mette a New York, li fa sposare e procreare, quindi fa degenerare la relazione nelle paranoie di lei, che non fa mangiare il piccolo per paura di avvelenarlo con carni e omogeneizzati vari.
Da dove nasca questa fissazione, che poi matura in autentica patologia, il regista non ce lo spiega, che convinzioni irrazionali portino la donna a una scelta così radicale e pericolosa per la sorte del bambino non lo sappiamo: e questo ci pare un punto debolissimo della storia, che impedisce di credere fino in fondo a questo dramma da camera. Resta comunque un’indubbia capacità di raccontare da parte del regista, di creare soluzioni sceniche convincenti per i suoi cuori affamati, in questo ben supportato dal sempre grande Fabio Cianchetti alla fotografia.
Veniamo infine all’ultimo film italiano in gara, quel “Giovane favoloso” di Martone su Leopardi. Una biografia critica, potremmo dire rubando l’espressione alla saggistica. Perché l’idea non è tanto incolonnare i fatti della vita di uno dei più grandi poeti italiani, ma percorrere il suo pensiero, riprodurre visivamente e nella sua vicenda la sua stessa arte. Martone è convinto che Leopardi sia un personaggio irresistibilmente rock (“E’ il Kurt Cobain della sua epoca”, ha chiaramente detto), ed è per quello che alle musiche chiama Sascha Ring, artista dell’elettronica berlinese; che attribuisce al giovane Giacomo l’ansia di abbandonare il buco nero della provincia e guadagnare la gloria, in una maniera che è più da giovane artista che da coltissimo intellettuale per quanto in età verde; che gli mette addosso certi cappottini che nemmeno Willy Wonka; che lo fa incurvare piegato come da un down parecchio duro…
Diciamolo: “Il giovane favoloso”, che è costato quanto costano ormai cinque film italiani, avesse avuto meno soldi sarebbe venuto meglio. Perché Martone prima di girare avrebbe dovuto tagliare parecchio in sceneggiatura, accorgendosi così che c’è almeno mezz’ora di troppo nei quasi 140 minuti del film, che la parte iniziale marchigiana è inutilmente lunga e diluita su episodi insignificanti e che se fosse stata assai meno breve avrebbe fatto pesare di più la seconda metà del film, in particolare la sezione napoletana, la conclusiva, epilogo davvero assai bello di questa pellicola.
Martone è regista essenzialmente teatrale, e lo si vede limpidamente da come tratta lo spazio: un fondale più che un personaggio. Ma nella fantastica Napoli che riproduce, questa città di lava e colera, povera e viziosa, levantina e tragica, animatissima e dunque vitalissima per il “naneruottolo” che l’ha incrociata come ultima stazione dell’esistenza, Martone trova tutti gli elementi dell’arte di Leopardi che gli stava a cuore raccontare. Diremmo: quale ruolo avere nella vita del mondo, vita oggettivamente invivibile per la infelicità del poeta che la attraversa; cosa ci dicono le stelle nel nostro dialogo muto con l’infinito; perché vivere se infine si muore… Finale strepitoso: “La ginestra” lungo il crinale dello ‘sterminator Vesèvo’ raramente è stata così bella ed emozionante. Film ambizioso, purtroppo diseguale, ma tutto sommato riuscito.

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