Il diario veneziano del cinefilo Alberto Alfredo Tristano/7

martedì, 2 settembre 2014

Vorremmo parlare di attori. Magari per comporre, se ne fossimo capaci, un’ode a Frances McDormand, la campionessa della recitazione americana. Venezia 71 l’ha omaggiata con un tributo alla sua presenza, portando sugli schermi del Lido la nuova miniserie della Hbo che è un vero omaggio all’arte suprema della Regina di Fargo. Il titolo è “Olive Kitteridge” e la vedremo nell’inverno 2015 su Sky Cinema (risparmiamo l’ennesimo appunto sulla crescente rilevanza del racconto televisivo nell’arte audiovisiva: non perché non ci crediamo, ma perché si esagera nel ribadirlo, e dopotutto rimane ancora il cinema il luogo culturale dove la civiltà delle immagini compie i suoi esperimenti e progressi più importanti).
Ma torniamo alla McDormand, che interpreta nella miniserie di quattro ore complessive una insegnante di scuola, che vive in una piccola comunità del Maine. Il racconto copre 25 anni della sua vita: un quarto di secolo vissuto nella normale quotidianità di una provincia, che però con i suoi piccoli grandi drammi ha la stessa potenza di un poema. Anima di tutto il lavoro è l’attrice, che innamoratasi dell’omonimo libro Premio Pulitzer 2009 di Elizabeth Strout, ha deciso di produrlo affidando la sceneggiatura a Jane Anderson e la regia di Lisa Cholodenko. Ma è doveroso segnalare come la patente di coautore vada certamente attribuita al cast tutt’intero.
Si rimane davvero incantati dinanzi a un gioco recitativo di un tale livello, dove compaiono tra gli altri gli eccellenti Richard Jenkins (il marito farmacista), Peter Mullan (il collega e amante mancato) e Bill Murray (il compagno della maturità vedovile). Impossibile staccare la visione dai fatti della cittadina americana, stretta tra il mare e i boschi, dove la vita scorre tranquilla e tragica, puntellata da morti lutti gioie vicissitudini. McDormand è al centro di tutto questo, come punto di caduta degli eventi, magnete delle diverse esistenze che si avvicendano: con il suo carattere spigoloso, talora da strega, la battuta di spirito, la capacità di contrastare la sottile disperazione che potrebbe avvincerla come capita a molti che le sono vicini. Mai uno sguardo sbagliato, un’inflessione fuori luogo, un passo dissonante: McDormand ha cercato e fortissimamente voluto questo ruolo e ne ha fatto forse il punto più alto della sua già formidabile carriera, giustamente celebrata qui a Venezia (anche se il direttore Barbera, chissà tradito dall’emozione, la chiamava sul palco “McDermand” per il non recitato disappunto di lei) tra gli applausi del pubblico in Sala Grande e di suo marito Joel Coen, altra leggenda di famiglia.
Per rimanere sull’argomento attori, e senza avventarsi in paragoni perché ai grandi si compara solo per esaltare e non per distruggere (troppo facile e ingeneroso), il cast e qualche difetto di costruzione indeboliscono la presa di “I nostri ragazzi” del bravo Ivano De Matteo presentato alle Giornate degli Autori e interpretato dalle due coppie Alessandro Gassmann con Barbora Bobulova e Luigi Lo Cascio con Giovanna Mezzogiorno. Questa specie di “Capitale umano” romano, e meglio ancora pratolino, vede intrecciarsi la vita di due famiglie imparentate e coinvolte in un brutto caso di cronaca nera.
De Matteo crea ambienti molto credibili scenograficamente e visivamente, però mal supportato, specie negli sviluppi drammatici della seconda metà del film, dai suoi attori principali, specie Lo Cascio e Mezzogiorno, forse non sorretti da un copione che in quegli sviluppi avrebbe avuto bisogno di maggiore spessore psicologico per giustificarne il cambio d’atteggiamento. Resta comunque il rifiuto del buonismo nel raccontare i ragazzi, i cui errori non possono essere (giustamente) compresi in un banale quadro sociologico di educazione carente, ma vanno ricondotti, come tutti i fatti della vita, anche a scelte personali: siamo buoni e siamo cattivi, e lo siamo anche da minorenni.
Le vicende di un’altra giovanissima di nome Tsili sono la base del film di Gitai, che si chiama come lei. Incarnazione dell’ebreo perseguitato, Tsili, creatura di natura prima ancora che di cultura, si nasconde selvaticamente in un bosco per sfuggire alle persecuzioni dei nazisti. Ma nessun luogo è sicuro: i suoni intorno non sono quelli di foresta ma di granate e bombe in esplosione, tragica compagnia di tutte le guerre del tempo contemporaneo. La violenza arriverà anche nel suo giaciglio di rami e foglie, e sarà per mano di un fuggiasco come lei. Il male è ovunque, come il bene. Finisce la guerra, la sua gente è liberata dalle truppe sovietiche, ma la pace non è arrivata né la strada finita.
Il film, fortemente teatralizzato, trova il suo filo non tanto nel dipanarsi della storia quanto nell’utilizzo di segni, innanzitutto culturali: preminente è il ruolo della musica, musica ispirata alla tradizione yiddish, dominata dagli archi e in particolare da uno struggente straziante violino solista che suona a riprodurre il canto di dolore e resistenza del popolo ebraico. Forse caricato da eccessive pretese metaforiche (il personaggio principale nella prima parte è interpretato da due attrici diverse), “Tsili” è di quelle opere che, magari per brani e spezzate parti del tutto, cresce nell’animo dello spettatore, come veicolo di sincera testimonianza, come lampo nella coscienza.

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