Il diario veneziano del cinefilo Alberto Alfredo Tristano/8

mercoledì, 3 settembre 2014

In effetti è comica davvero questa storia che Scalfaro, Napolitano, Parisi, Mancino e istituzioni miste sono i mafiosi veri, i venditori della dignità dello Stato, gli spacciatori della legalità in luogo della propria perpetuazione nel Palazzo, e pertanto più mafiosi dei mafiosi Spatuzza (pure gli esami di teologia fa, il sant’uomo), di Ciancimino jr, di tutta questa accolita pentita (pentita?) che dopo essere stati l’attrazione per certo circo mediatico diventano il Vangelo per Sabina Guzzanti in questo film “La trattativa”. La verità, tutta la verità della Guzzanti è un fritto misto di testimonianze giudiziali, interviste a magistrati, ricostruzioni degne delle peggiori micro-fiction che Santoro infilava nelle sue ultime trasmissioni, deduzioni, convinzioni a prescindere, che spacciano per inchiesta cinematografica sulla mafia una risibile (e non perché divertente) offerta di qualunquismo a quel pubblico-lettore-spettatore che si informa solo con quanto rafforza la propria posizione. Nessun dubbio, nessuna sottigliezza, nessuna cautela: tutti mafiosi (e chi non lo è e non sta coi “buoni e giusti” è solo un coglione: vedi come è rappresentato Caselli).
Tanto poi alla fine sempre lì si finisce, a Berlusconi, senza nemmeno la forza di un attacco esplicito, di una guerra dichiarata alla propria idea di mafia, al male oscuro che appartiene alla nazione come la depressione appartiene all’individuo: insomma, senza la grandezza che dobbiamo riconoscere a Franco Maresco per il suo “Belluscone. Una storia siciliana”. A costo di essere brutali, il punto è all’incirca questo: Maresco, da vero genio comico e dunque profondamente tragico, ci restituisce il veleno che attossica la sua coscienza civile; la coscienza civile della Guzzanti è solo un tentativo di rilancio di carriera senza più picchi ormai da tempo. E questo è quanto.
Maresco, utilizzando all’incirca lo stesso materiale di accusa al berlusconismo della Guzzanti, imbastisce una diseguale ma annichilente tragica commedia dell’essere italiani. Da siciliano, sa vedere tragedia e tragediatori, verità e artificio, la sostanza e l’inganno. Come nel colto e disincantato paradosso di un illuminista, Maresco, che conosce il cinema come pochi e la fa come pochi facendosi bastare un semplice zoom su un palco con Dell’Utri o una Palermo afferrata di notte, allinea le nere più nere maschere nazionali, quelle dell’intrattenitore e dell’artista dell’arrangiarsi, riconoscendo in esse la propria stessa fallacia (un immenso talento comico che non riesce più a lavorare, avversato dall’industria e minato dalla nevrosi), e dicendo la parola autentica e definitiva sul berlusconismo: l’autorappresentazione della disperazione nazionale. Non un’entità marziana che ha sedotto tutti, ma un tratto di dna che accomuna la casalinga e Cosa nostra. Non c’è nessun mistero da scoprire, è tutto chiaro e illuminato bene, e infatti il film procede come la parodia di un giallo senza esito condotta dall’investigatore cinefilo Tatti Sanguineti sulla scomparsa del cineasta Maresco. Una straordinaria girandola di piani narrativi, di chiavi di lettura, di suggestioni, di personaggi. E il finale di questo viaggio al termine dell’Italia che è la Sicilia è nichilismo puro: un’immagine tenera, pacificata, serena, un giovane musicista che depone un fiore su una tomba. Sulla tomba di Stefano Bontade.
E’ curioso notare come, in questo circuito tra cinema e mafia nel programma di Venezia 71, ancora Sanguineti faccia il ritratto del politico (prescritto) dei rapporti Stato-Cosa Nostra per eccellenza, Giulio Andreotti, ma senza parlare di Cosa Nostra: il documentario è tutto su cinema e censura, attività in cui la Democrazia cristiana offrì ripetute prove come carabiniera della morale cattolica. Il documentario, intitolato “Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino”, ricostruisce come agli albori della carriera politica il Divo Giulio fu l’uomo chiave di De Gasperi per lo spettacolo italiano, cui diede una legge che rilanciò fortemente la nostra industria cinematografica. E’ bene ricordarlo perché di quell’Andreotti si ricorda per lo più la famosa e infelice frase sui “panni sporchi da lavare in casa” all’indirizzo di De Sica per “Umberto D.” Capolavoro assoluto, meritoriamente restaurato dalla Cineteca nazionale e mostrato in nuova vita qui al festival.
Ps: A proposito di De Sica, del Lido e delle abitudini locali più o meno da codice penale, segnaliamo che “Umberto D.” è ovviamente perfetto, ma ancor più calzante – a quanto sentiamo – sarebbe “Ladri di biciclette”.
Alberto Alfredo Tristano

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