Il diario veneziano del cinefilo Alberto Alfredo Tristano/10

venerdì, 5 settembre 2014

Quel che si doveva vedere, s’è visto. E al fondo c’è sempre un sottile rimpianto: che si potesse vedere di più ancora… E’ finita la strada del concorso, ora tutto passa nelle mani e nelle valutazioni della giuria. Le conclusioni sono state all’altezza della selezione di gara, di alto livello. “Good kill” di Niccol sintonizza il festival sulla più grande piaga della società, la guerra. E lo fa utilizzando una messinscena originale: infatti la guerra non è più il luogo di combattimento, di corpo a corpo col nemico, ma una cabina nel deserto del Nevada, dove un gruppo di militari con i loro computer e l’occhio agli schermi sparano dai droni i missili sugli obiettivi. Afghanistan, Yemen: è tutto in quella piccola stanza tecnologica, oscura, claustrofobica. La cui distanza dai luoghi della morte non annulla certo l’effetto sulla mente dei coinvolti. Anzi è proprio l’ambiente asettico in cui si stabilisce chi deve morire e chi no (“3, 2 , 1… Dieci secondi… Colpito”) che esaspera la nevrosi di un soldato che non combatte eppure uccide. “Mi manca la paura” dice a un certo punto Hawke. E’ tutto vero, il sangue vero, la furia è vera, non simulata solo perché lontanissima. Come è vero il tormento, l’insostenibilità psicologica di quella situazione dei soldati, anche se vivono a Las Vegas, la città luna park, “la fine della civiltà”, dove le attrazioni del mondo sono ricostruite come al parco giochi. E’ azzeccata questa ambientazione, questo doppio fronte della guerra che non sembra una guerra ma la playstation e di una città (la civiltà) che non sembra una città ma un luogo di divertimenti. Forse la regia avrebbe dovuto innervarsi su tensioni e spunti ancora maggiori, forse stilisticamente il film non ha quella ricerca formale che in un festival è un punto qualificante, ma “Good kill” ha comunque una sua intensità.
Lieve è invece “The Postman’s White Nights” di Andrej Koncaloskij. E assai simpatico il postino di una remota comunità della Russia rurale contemporanea. Gli piace una donna che però lascerà quel posto per la città, rimarranno quelli di sempre, troppo bevuti per stare in piedi, troppo vecchi per un futuro, troppo soli per immaginare un altrove. E intanto i missili, nella vicina centrale, vanno alla scoperta del cielo… Bellissimo cinema di comunità, recitato dagli stessi abitanti del luogo, volutamente povero, attraverso con passo lento ma non noioso si apre sul racconto del paese, con squarci di grande bellezza, come il ritratto della natura acquatica che circonda le case, e gli spassosi scambi tra l’insonne postino e il bambino della donna che lui ama.
Su questo film si inseguono i favori di molti. Consensi ampi riceve anche il film dello svedese “A pigeon sat on a branch reflecting on existence” firmato Andersson: 39 scene a camera fissa in cui una serie di personaggi riflettono sulla vita. Qualcosa a metà tra Bergman e Kaurismaki, che non è né l’uno né l’altro. Grande cura formale, stile riconoscibile: ma ci sembra prevalga più l’ammirazione per la carriera del venerato maestro scandinavo che una valutazione nel merito del lavoro presentato.
Stando alle pellicole viste, sarebbe bello se il vincitore uscisse da questa personalissima short list: “The Look of Silence”, dove un massacro politico diventa grande riflessione sull’umanità e il modo di raccontarla, magari facendo venire la curiosità di vedere il precedente film del giovane e già grandissimo Oppenheimer sull’argomento, “The act of killing”, un capolavoro assoluto uscito due anni fa; “Anime nere”, splendido noir antiretorico dell’italiano Munzi, fenomenologia della faida che è anche e soprattutto riflessione sui legami di odio e di amore; “Pasolini”, l’ipnosi di Ferrara sul talento di PPP, viaggio nella creatività fatto di visioni e sangue; “Birdman”, spettacolo allo stato puro, sulle scene mobili del teatro della vita.
Non possiamo dimenticare colui che ha dominato la giornata, James Franco, il divo fantuttone, uno che cento ne pensa e duemila ne fa, un vulcano di idee, di progetti, di esibizioni. Si è presentato a Venezia col cranio rasato e sulla nuca l’immagine della Taylor e di Clift in “Un posto al sole”. Di suo ha portato Faulkner, “L’urlo e il furore”, cupa America degli anni ’20: questa trasposizione è il suo film migliore. Ma da uno che a breve esce nei film di Herzog e Wenders ci aspettiamo belle sorprese continue. C’è poco da fare: è lui il divo vero di questi anni. Pieno di talento, e di una non comune furbizia (o cazzìmma, direbbero più propriamente a Napoli), che certo non guasta tra gli squali di Hollywood.

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