Al summit di Parigi, fra i trenta paesi disposti (sulla carta) a coalizzarsi per debellare l’avanzata dell’Is, mancava l’interlocutore decisivo: cioè l’Iran, già impegnato sul terreno di uno scontro fra sunniti e sciiti in cui la Teheran post-rivoluzione del 1979 riveste un peso determinante, imprescindibile. Ufficialmente non c’è alcun coordinamento militare fra Usa e Iran nella guerra all’Is di al-Baghdadi. Ma dietro le quinte i contatti si sono intensificati, come dimostra anche la proroga dei negoziati sul nucleare. Se Teheran consentisse una transizione concordata a Damasco, con l’uscita di scena dell’indifendibile Assad ma senza l’umiliazione di alawiti e sciiti, potrebbe essere la svolta buona.
Troppi condizionali, ma la sostanza è che 35 anni dopo la rivoluzione degli ayatollah del 1979 con cui l’Iran divenne l’avamposto dell’ostilità anti-Usa del mondo musulmano, sta maturando la possibilità benefica di un riavvicinamento. Credo che Obama stia lavorando a questo obiettivo, anche se non lo può dichiarare pubblicamente.