Lo sfogo di Descalzi: “Non ho preso tangenti nigeriane e sto cambiando l’Eni di Scaroni”

domenica, 21 settembre 2014

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
METANOPOLI
“Adesso basta. Voglio gridarlo al mondo che non sono un disonesto. Dopo una vita di lavoro nel petrolio, sempre rimasto alla larga da giri loschi, non mi fa dormire di notte l’idea di venire associato a un Bisignani o agli altri trafficanti con cui non ho nulla a che spartire. Proprio ora che stavo cambiando tutto all’Eni, dopo i 9 anni della gestione Scaroni”. E’ una voce strozzata dal pianto quella dell’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, indagato per corruzione internazionale nella storiaccia del giacimento nigeriano 245 e della maxi-stecca pretesa dagli intermediari.
Non riesce a trattenere lo sfogo, Descalzi, con l’amico che prima ha abbracciato e a cui rivolge non solo occhi pieni di lacrime, ma anche una raffica di domande: “Davvero chi mi conosce può pensare che io resti attaccato a quella poltrona? Certo non posso permettermi di smettere di lavorare, io. A differenza di chi mi ha preceduto guadagno bene ma non sono né miliardario né milionario. Non ci fosse di mezzo un procedimento penale cui rispondere, e la reputazione dell’Eni oltre che mia personale, me ne sarei andato già altrove. Un posto, per quanto meno importante, me l’ero già trovato a Londra, prima della nomina”.
Tira davvero una brutta aria qui a Metanopoli, dove Enrico Mattei concepì la sua città-azienda di vetrocemento prima ancora che le marcite venissero solcate dall’Autostrada del Sole.
Da sempre l’uomo-prodotto Descalzi era insediato un poco più in là, nelle palazzine dell’Agip, dove, confida sempre agli amici, “in 9 anni Scaroni non ha messo mai il naso”. Nominato da Renzi al vertice del colosso petrolifero, si è dovuto trasferire al dodicesimo piano del primo palazzo, quello disegnato dall’architetto olivettiano Marcello Nizzoli. Tira una brutta aria perché nonostante Descalzi abbia smantellato le strutture direzionali del predecessore, a cominciare dal settore comunicazione affidato a Stefano Lucchini con un budget di centinaia di milioni, tuttora uomini e donne della gestione precedente occupano posizioni-chiave, e la fiducia reciproca è andata a farsi benedire. Uno dei nuovi consiglieri d’amministrazione, l’indipendente, Luigi Zingales, ha considerato “temeraria” la difesa pubblica di Descalzi attuata dal premier. Nei giorni scorsi voleva rassegnare le dimissioni, lo hanno dissuaso. Si paventano conseguenze pesanti da parte delle autorità governative e dalla Sec degli Stati Uniti, già in passato rivelatesi severissime in materia di corruzione internazionale.
Ma nell’attesa degli eventi, è sul ruolo di Descalzi che serpeggia incredulità man mano che i blog pubblicano intercettazioni telefoniche dell’ad con Luigi Bisignani e gli sms da lui scambiati col nigeriano Emeka Bobi, rivelatosi portaborse dello screditato ex ministro del petrolio Dan Etete. Possibile che non solo Scaroni, ma anche Descalzi, fosse disposto a tutto pur di rafforzare Eni nel delta del Niger?
Gli amici restano interdetti perché conoscono l’abissale differenza di carattere, di frequentazioni e perfino di tenore di vita tra Scaroni e Descalzi. Se il primo dispone di abitazioni prestigiose da Roma a Milano, dall’Argentario a Cortina a Sankt Moritz, lui invece risiede in un modesto appartamento di semiperiferia, cui da poco si è aggiunta una casa a Londra. Eppure uno degli indagati, Vincenzo Armanna, manager licenziato dall’Eni a seguito di presunte malversazioni in Medio Oriente, dichiara di aver suggerito a Etete di alzare di 200 milioni la quota di intermediazione pattuita perché bisognava distribuirla “fra Obi e altri manager di Eni, incluso Descalzi”. Un’insinuazione che lo fa fremere di rabbia.
Di passare per sodale degli uomini della cosiddetta P4, a Descalzi proprio non gli va giù. E allora agli amici confida: “Fu Scaroni a parlarmi della possibilità di acquisire il blocco 245 in Nigeria. Chiarii subito che era un ottimo giacimento, ma che se c’era di mezzo Etete non si poteva fare. Scaroni poco dopo mi invitò a casa sua e mi fece incontrare Bisignani. Anche le successive conversazioni con Bisignani passarono dal telefono di Scaroni. Era il mio capo… Da mesi io non prendo più le chiamate di Scaroni, qui dentro sto cambiando tutto”. L’altro aspirante mediatore italiano di questa trattativa, Gianluca Di Nardo, assai legato al finanziere milanese Francesco Micheli, Descalzi assicura di non averlo mai incontrato. E quando alla cena del Principe Savoia fece la sua comparsa imprevista l’ex ministro Etete, Descalzi chiuse rapidamente l’incontro e se ne andò. Resta convinto di poter dimostrare ai giudici, assistito dall’avvocato Paola Severino, che l’acquisizione del blocco 245 per 1,3 miliardi sia andata a buon fine direttamente col governo nigeriano, dopo verifica congiunta con i partner della Shell.
Lo ha scritto nella lettera rivolta a tutti i dipendenti Eni, si appresta a ribadirlo nella riunione dei 140 Kei-manager convocata nei prossimi giorni.
Eppure le pretese di Etete sulla titolarità della società Malubu, cointestataria insieme a Shell del blocco 245, erano già state riconosciute nella sentenza di un tribunale inglese che in suo favore ha sequestrato cautelativamente circa 200 milioni di dollari. Nell’assemblea degli azionisti Eni del maggio scorso tale circostanza fu riferita dall’avvocato Simon Taylor dell’ong Global Whitness, supportato dagli attivisti italiani di Recommon. Perchè Descalzi non ne ha tenuto conto? La sua tesi è che la controversia interna all’establishment nigeriano, approdata a Londra, non dovesse riguardare l’Eni visto che la trattativa e il conseguente Exclusivity agreement sono stati sottoscritti direttamente col governo di Abuja. Il governo nigeriano ha espropriato Malabu. Eni ha sottoscritto l’accordo con i ministri delle giustizia, delle finanze e del petrolio di Abuja.Dunque le sollecitazioni di Bisignani, a lui giunte pressanti per il tramite di Scaroni, erano destinate a rimanere lettera morta. E pazienza se lo stesso Scaroni le aveva taciute, a precisa domanda, nel corso di un’audizione alla Commissione Attività Produttive del Senato presieduta da Massimo Mucchetti il 3 aprile scorso.
Commenta oggi Mucchetti: “Se il premier Renzi su questa vicenda ha assunto una posizione diametralmente opposta a quella tenuta su Finmeccanica e Expo 2015, mi auguro che l’abbia fatto sulla base di una documentazione convincente dei nostri servizi segreti”. Così veleni e sospetti ammorbano Metanopoli nel mezzo di una transizione delicatissima, certo non aiutata sul fronte dei mass media dal drastico taglio degli investimenti pubblicitari e delle sponsorizzazioni, seguito all’uscita di scena di Stefano Lucchini. Altri malumori ha suscitato la decisione di Descalzi di cedere Saipem e pure la procedura avviata per il risanamento delle perdite della raffineria di Gela. La rivoluzione aziendale è vissuta come una minaccia da molti dirigenti del passato.
Resta il solito dubbio del “così fan tutti”: ancora oggi, come ai tempi del fondatore Mattei, non è possibile operare nella compravendita di petrolio e gas senza il lubrificante della corruzione? Descalzi lo ha sempre negato. Sostiene che né le multinazionali né i governi occidentali possono più permettersi questa scorciatoia immorale. Che anzi sarebbe disastroso per tutti –per ragioni economiche, politiche e militari- se il fiume di denaro dell’energia riversato sull’Africa continuasse ad affluire nelle tasche sbagliate.
Si spiegano così le preoccupazioni che hanno portato il consigliere Luigi Zingales sull’orlo delle dimissioni: che un’altra macchia sulla reputazione dell’Eni, già multata negli Usa per la precedente vicenda nigeriana TSKJ, e coinvolta nello scandalo delle presunte tangenti Saipem in Algeria, danneggi gravemente l’interesse nazionale. Tutto questo grava sulle spalle di Descalzi. Ma lui, prima ancora, si dispera all’idea di passare per intascatore di mazzette. Lui che ama l’Africa, lui che ha sposato la congolese Madò, lui che si sente intrappolato in una compagnia da cui girava al largo.

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